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Una rosa nera

Rosa


“Vago per le stanze della mia casa, e mi sembra di vederle per la prima volta. Osservo i mobili, gli oggetti… e mi rendo conto solo adesso che non mi appartengono. Sembra assurdo, visto che per tanti e tanti anni, mi sono comportata come se fossero davvero miei. Ma oggi, per la prima volta, ho tolto la maschera dal viso. Sono rimasta sola e non c’è più bisogno di fingere. Eppure, non posso fare a meno di rivedere me stessa in quel nuovo capitolo della mia vita che era il mio matrimonio con Giacomo. Entravo in questa casa da donna innamorata, piena di aspettative e pronta a essere una futura madre: lo speravo con tutto il cuore.

Il periodo non era dei migliori, ma avevamo fiducia nel futuro. La seconda guerra mondiale era finita da un anno. Nel mio piccolo Comune, a pochi chilometri dall’Austria, la primavera si stava affacciando, dopo il lungo letargo invernale. La natura si stava risvegliando e si respirava una buona aria: aria di festa.

Giacomo, nel periodo di guerra, aveva lavorato come telegrafista dopo essere stato riformato, ufficialmente per salute cagionevole. In realtà, mio suocero aveva fatto pressioni affinché il figlio non partisse per il fronte. Ma Giacomo non l’aveva presa bene. Avrebbe voluto combattere, per poter dare il suo contributo alla Nazione. Io, dal canto mio, ero stata felice che lui non avesse vissuto gli orrori della guerra andando al fronte, ma avevo sempre evitato di dirglielo.

Dopo i primi mesi di euforia, la vita coniugale, si rivelò alquanto monotona. Giacomo si era adagiato dentro quel ruolo forse un po’ troppo presto. I baffi che si era fatto crescere lo invecchiavano. Rimasi delusa quando non mi chiese un parere al riguardo. E io, ancora una volta, non dissi nulla.

Col bel tempo, mi piaceva stare fuori. Avevamo un pezzetto di terra, parte adibita a giardino, con una soffice erbetta verde, e parte coltivabile. Fin dall’inizio, Giacomo me lo diede come compito e io mi ci dedicai con passione.

Ero spesso a casa da sola. Quando mio marito terminava il suo turno di lavoro, (ormai faceva l’operaio in una fabbrica di dolciumi) andava al bar dove trovava uomini che, come lui, si divertivano a far passare il tempo tra una partita di carte e un bicchiere di vino. Dentro a quel bar un giorno entrò un uomo dall’accento straniero. A gran voce chiese: “Signori… qualcuno tra voi sa giocare a scacchi?” Tra tanta gente, solo una voce rispose: “Io!” Quella era la voce di mio marito.

Ben presto, lui e il giovane giocatore di scacchi Hubert, divennero amici. Ormai Giacomo, dopo il lavoro, non andava più al bar. Tornava dritto a casa. Dopo un po’ arrivava Hubert. Mio marito ne era semplicemente entusiasta. Ogni giorno me ne decantava le lodi. Diceva: “E’ colto, Rosa! Gentile e simpatico!” Io annuivo. Che altro potevo fare? Ma lo trovavo solo invadente. Ero arrivata a desiderare che Giacomo riprendesse le abitudini del bar…

Ogni sera mangiavamo velocemente, facevo i piatti e mi ritiravo in camera nella speranza di sentire il portone chiudersi e l’ospite andarsene. Ma spesso mi addormentavo, a volte cullata dalle loro discussioni. Io, giovane sposa, avvertivo la mancanza di mio marito. Lo sentivo lontano, come se le nostre vite fossero in scompartimenti diversi pur viaggiando sullo stesso treno.

Hubert era austriaco, ma abitava a pochi chilometri dal nostro paese che era terra di confine. Parlava perfettamente la nostra lingua, visto che aveva una madre italiana. Però, per quanto cercassi di essere paziente, dovevo ammettere che Hubert stava diventando un ostacolo, un rivale che toglieva, consapevolmente o meno, tempo alla mia vita matrimoniale. Tolleravo sempre meno quella situazione. E intanto, il periodo pasquale si stava avvicinando. Avevo pensato molto alla strategia da adottare per indebolire l’influenza che l’austriaco aveva su mio marito. Mi resi conto però che non avrei ottenuto niente se avessi cercato di mettere Hubert sotto una cattiva luce. Così, decisi di giocare d’astuzia. Un giorno chiesi a Giacomo: “E se invitassimo a Pasqua il tuo grande amico Hubert? Pensi che accetterebbe?” Avevo preso mio marito alla sprovvista, lo si poteva capire dal suo sguardo perplesso e da uno strano sorriso che gli spuntava attraverso i folti baffi rossicci.

“E brava la mia mogliettina!” rispose divertito “Non sei più gelosa allora?” Avevo cercato di rimanere impassibile, perciò feci spallucce e non gli risposi. Alla fine Giacomo mi raggiunse, mi cinse la vita con le sue braccia poi disse:

“Coniglio, patate e crauti? E’ la tua specialità dopotutto”

Io avevo annuito e mi ritirai in camera.

Non ero felice di come stavano andando le cose. Dopo neanche un anno dal matrimonio, non riuscivo a rimanere incinta. In più, da quando Hubert era entrato nelle nostre vite, c’era ben poco spazio per effusioni notturne.

La domenica di Pasqua, Hubert si presentò a casa nostra in perfetto orario. Arrivò con un generoso mazzo di fiori per me, e mi fece molti complimenti riguardanti il cibo.

Dopotutto, quell’uomo non era poi così male… “Se solo fosse meno invadente…” pensavo tra me. A un tratto, mio marito scese in cantina a prendere dell’altro vino, e io rimasi sola con Hubert. Ero a disagio, non sapevo come comportarmi, o cosa dire. Ci pensò Hubert che, senza preamboli, si rivolse a me facendomi una strana, ma alquanto schietta domanda: “Siete sterile signora Rosa? Vostro marito lo teme”

Io ero diventata rossa dalla rabbia. Non avrei mai immaginato che Giacomo raccontasse i fatti nostri a estranei. E poi, nemmeno ne avevamo mai parlato tra di noi.

“Non credo” dissi, rispondendo alla sua impertinente domanda. Ero turbata e imbarazzata perché andava a toccare la mia più profonda intimità. Mi sentivo offesa per quella sua uscita assai infelice. Cercando di non far trasparire tutta la rabbia che avevo addosso, dissi: “Mio marito si è dimenticato di includere se stesso in questo quadretto. Ma la colpa è sempre della donna vero? Anche se ormai si contano sulle dita di una mano le volte in cui mi trova sveglia quando sale in camera. E da ultimo, signor Hubert, non mi sarei mai aspettata che un ospite mi facesse una domanda così personale e priva di tatto.”

Mi sembra ancora di sentirlo il mio cuore martellarmi dentro come un cavallo imbizzarrito. Avevo paura anche delle conseguenze. Non mi ero comportata da buona moglie sottomessa, ubbidiente e silenziosa, come veniva richiesto che fossi. Avevo reagito d’impulso, dimostrando poco sangue freddo. Cosa sarebbe successo se Hubert avesse spiattellato a Giacomo ciò che gli avevo appena detto?

Dopo aver sparecchiato, Giacomo e Hubert si prepararono per la solita partita a scacchi. Ma stavolta, l’austriaco mi chiese di restare. Disse: “Si gioca meglio quando una bella donna ti guarda”

Non sapevo cosa pensare. Era un suo modo del tutto personale per scusarsi? Ciò che era certo era che stava continuando a invadere la mia intimità coniugale.

A un certo punto chiesi: “E voi Hubert, siete solo? Non vi ho mai sentito parlare di una donna”

Mio marito mi aveva lanciato un’occhiata sinistra, ma non aveva osato dire niente. Al contrario, il nostro ospite sorrise, poi disse: “Ah voi donne! Siete astute e spietate. Nonché curiose e pettegole. Ma io vi amo tutte! Sono così indeciso su questo fronte che non saprei chi scegliere. E poi c’è un detto che dice: “L’erba del vicino è sempre la più verde” E io, ahimè, ho il brutto vizio di apprezzare i giardini altrui. Non so se mi spiego…” Hubert era insolente. Ma non si distraeva dal gioco. Il suo sguardo era impenetrabile mentre muoveva con disinvoltura i pezzi. A un certo punto Giacomo aveva detto: “Il mio consiglio, amico mio, è quello di darvi al giardinaggio” Così dicendo, aveva mosso una torre, mettendolo sotto scacco. Hubert aveva sorriso. Non contento, mio marito aveva continuato su quel filone dicendo: “Se c’è una cosa che detesto, è tagliare l’erba di questo dannato giardino. Potreste iniziare proprio dal mio. Che ne dite Hubert?”

Ero sbalordita. Non riuscivo a capire se Giacomo parlasse di giardini letterali o se invece usasse anche lui la stessa metafora.

Tutta quella faccenda mi sembrava surreale. Stanca di questi giochetti, mi alzai e andai nella nostra rimessa. Quando tornai avevo con me una falce e un rastrello. Vidi i due uomini sgranare gli occhi, poi Hubert esplose in una fragorosa risata. Ma io ero seria quando dissi: “Gli altri arnesi li troverete nella rimessa. Quando vi aggrada, potrete iniziare a far pratica.

Li lasciai a bocca aperta e me ne andai a letto.

Quella sera stentai a prendere sonno. Non sapevo nemmeno io cosa mi era preso. Portare gli attrezzi in casa era stato stupido, ma ormai l’avevo fatto. In un certo senso, avevo invitato Hubert a occuparsi del nostro giardino. Questo implicava vedersi quando Giacomo non c’era. Ero turbata. Alla fine mi addormentai, ma avevo un sonno inquieto e leggero. Sentii la porta che si apriva e rimasi girata dalla mia parte. Non avevo voglia di sentire una discussione in piena notte. Calcolai i minuti che Giacomo avrebbe impiegato per spogliarsi e mettersi il pigiama. Ma qualcosa non tornava. In un attimo il suo corpo era su di me. Iniziò a baciarmi dolcemente, a scostarmi i capelli e delicatamente abbassarmi le mutandine. Io vivevo quel momento tenendo gli occhi chiusi. Era come essere in un sogno. Non avevo mai vissuto nulla di così tenero e magico. E quando il piacere arrivò, mi sentii finalmente in pace. Un’impercettibile voce lontana, disse: “Dormi bene Rosa” Mi svegliai il mattino seguente con la testa pesante, come se avessi preso una sbornia, ma con la netta sensazione che Giacomo mi avesse amato come mai prima.

Per pudore, non dissi nulla a mio marito. Quando scesi in cucina, lui era già sulla porta pronto per uscire. Avrei voluto avvicinarmi, dargli un bacio, ringraziarlo per i modi delicati che aveva usato la sera prima. Ma lui non disse nulla e uscì.

Io rimasi lì, in piedi. Nella mente, mille pensieri e tanti dubbi.

Dopo quel giorno, Hubert non si fece più vedere. Quando chiesi spiegazioni a Giacomo, lo vidi sorpreso, come se quello fosse un argomento chiuso.

Ma io perseverai, finché mio marito disse: “Mi meraviglio che tu me lo chieda. Dovresti immaginare perché Hubert non viene più.” Vedendo la mia perplessità, Giacomo esclamò: “E’ stata colpa tua Rosa! Lo hai fatto scappare. Hubert era solo un giocherellone. Gli piaceva divertirsi e fare la sua partita a scacchi con me. Era un amico leale. Adesso non mi cerca più. Qualcuno mi ha anche dato il suo indirizzo di casa, ma io non mi piego di certo. Se si è stufato di giocare a scacchi, be’… peggio per lui. Oltretutto ha lasciato qui la sua scacchiera.”

Ero sorpresa che mio marito non fosse poi così arrabbiato con me. Forse, anche lui si era stancato di quella routine coi scacchi. Solo, gli aveva fatto comodo incolpare me.

Un giorno trovai un bigliettino dentro a una tasca dei pantaloni di Giacomo. Ormai erano passati tre mesi da quella domenica di Pasqua. Nel biglietto, c’era l’indirizzo di Hubert. Era ciò che cercavo, e senza indugio, lo andai a trovare. Era giugno e nell’aria c’era voglia di rinascita. Hubert abitava in un paesino rurale, non lontano da casa mia. Lo trovai nel suo giardino. Stava contemplando le sue rose. Parve sorpreso di vedermi, ma ugualmente, fu gentile con me. Disse: “Rosa! Che piacere vedervi!”

Gli feci i complimenti per le sue rose. Ne aveva di vari colori. Erano tutte molto belle, ma un tipo in particolare catturò la mia attenzione: era una rosa nera. Non mi sarei mai aspettata di trovare lì così tanta bellezza. E quando lui disse: “Ho iniziato a coltivarle da quando vi conosco. Mi ricordano il vostro bel nome…” rimasi spiazzata. Hubert mi sembrava cambiato e forse, anche un po’ triste. Quando vide che osservavo attentamente le sue rose nere, disse: “In realtà quello è un rosso molto intenso, tanto da sembrare nero” Detto questo, ne prese un bocciolo e me lo appuntò sui capelli. Ero profondamente turbata. Quei gesti, quelle parole pronunciate poco prima… Mi raccontavano un Hubert diverso. Quello, non sembrava lo stesso uomo che era venuto a casa mia. Ma non sapevo quale fosse il vero Hubert. Forse stava solo giocando con me. Mi sarei aspettata che mi chiedesse notizie di Giacomo, ma non lo fece. Iniziai a sospettare allora, che forse, ci fosse stato un malinteso tra loro. Decisi di lasciar correre. Anche se avrei voluto saperlo. Poi mi ridestai. Ero lì per qualcos’altro, perciò dissi: “Vi prego Hubert, appoggiate una mano qua, sopra il mio ventre”

Lo vidi trasalire. Con riluttanza, si avvicinò a me, e siccome la sua mano era ancora penzoloni, gliela presi io, poi dissi: “Ecco caro Hubert. Oggi posso rispondere alla vostra domanda di mesi fa. Ebbene! Io non sono sterile. Aspetto un bambino da mio marito” Adesso, che finalmente avevo ottenuto la mia piccola rivincita, non mi sentivo bene come avrei sperato. Avvertivo la mano di Hubert sopra il mio ventre ancora poco visibile, e per un attimo, pensai che mi piaceva. Come per incanto, risentii quella stessa mano tra i miei capelli e mentre mi abbassava le mutandine. Deglutii e con poca grazia, scansai la sua mano dalla mia e me ne andai. Camminando verso casa, le lacrime rigavano il mio viso. Sarei diventata madre. Dentro il mio ventre c’era Marianna, la mia unica figlia. Da allora, non rimasi più incinta.

Oggi che sono una donna anziana, non ho più paura di certi pensieri che ogni tanto, nel corso del tempo, affioravano nella mia mente, ma che scacciavo come fossero stati ingiusti.

Cosa accadde in quella lontana domenica di Pasqua? C’era Giacomo a letto con me? O era stato Hubert invece a possedermi?

Ogni tanto ripenso a quel momento in cui ho preso la sua mano quasi con forza, appoggiandola sul mio ventre. Mi sembra di

sentirlo ancora, il tocco gentile della sua mano. Non c’era più in lui l’aria da sbruffone che aveva quel giorno a casa mia. C’era solo imbarazzo e tristezza, una tristezza che conoscevo bene anch’io. Ero tornata a casa da mio marito, ma quel giorno, lungo la strada, avevo perso qualcosa: la mia felicità.


Sabrina


Ed eccomi qua a catalogare pezzi di vita che ormai non servono più. Interi servizi di piatti, bicchieri e posate. Quelli che venivano usati solo nelle grandi occasioni. E’ triste pensare che non interessino più a nessuno. Mia madre è stata categorica: “Non conservare niente Sabrina. Butta tutto!”

Non posso darle torto. Controllo meglio, e mi accorgo che alcuni piatti mostrano i segni del tempo con qualche sbeccatura. Nonostante questo, non riesco a far finta di niente. Questi erano i piatti delle feste. Natale, Pasqua, compleanni… I nonni ci tenevano, lo ricordo bene. In quelle occasioni, dal cassetto usciva la tovaglia ricamata coi suoi tovaglioli. Da bambina osservavo quella stoffa perfettamente stirata, ma che sapeva di antico, stando al chiuso per gran parte dell’anno. Non era raro aprire il tovagliolo e trovarci una macchiolina gialla, una di quelle ostinate che non se ne vanno più. Mi vergognavo a chiedere alla nonna di che tipo di macchia si trattasse. A casa mia si usavano i tovaglioli di carta. Mia madre è sempre stata pratica e poco sentimentale. A volte mi chiedevo come sarebbe stato vivere in pianta stabile dalla nonna. Ma non sono mai riuscita a darmi una risposta. Mi piaceva andare da lei, ma poi ero contenta di tornare a casa mia.

Apprezzavo però ciò che nonna Rosa faceva. Lei ci teneva a che tutto fosse sistemato bene e che la festa riuscisse.

Ma adesso, questi muri sanno solo di silenzio e tristezza, da quando Rosa e Giacomo se ne sono andati.

Se ripenso al loro ultimo anniversario di matrimonio, rivedo una coppia ancora affiatata. Qualcuno aveva chiesto a gran voce che si baciassero e loro l’avevano accontentato. Eppure, mentre tutti battevano le mani, avevo incontrato gli occhi di nonna Rosa, come se ci fossimo cercate nello stesso momento. E mi era parso di leggere in quei suoi occhi, così scuri e penetranti, un’altra storia. Era come se in quel momento mi dicessero: “Non fermarti mai alle apparenze”

Così, mentre sono qui, nella sua casa da sola, riprendo in mano quel taccuino blu che lei stessa mi aveva consegnato alcuni anni fa poco dopo la morte di nonno Giacomo. Avevamo bevuto assieme un tè, sedute in veranda, tra piante grasse e aromatiche. Rosa aveva tirato fuori quel libricino blu dalla tasca del grembiule, e aveva detto: “Tieni Sabrina. Affido a te questo taccuino dove ho annotato delle cose importanti che fanno parte del mio passato. Quando non ci sarò più, ti chiedo di non buttarlo. Consideralo una piccola eredità solo per te”.

E così avevo fatto. Non le avevo chiesto niente, e non ne feci menzione con mia madre. Per qualche motivo particolare, Rosa aveva preferito consegnarlo a me, piuttosto che darlo alla sua unica figlia Marianna. Nonna aveva solo detto, forse intuendo i miei pensieri: “Io e tua madre non siamo mai andate veramente d’accordo…”

Sapevo anche questo, non era una novità. Mia madre, non appena aveva potuto, aveva lasciato la sua casa d’infanzia ed era andata a lavorare in Austria. A una ventina di chilometri da casa, ma tanto era bastato per sentirsi meglio e respirare un’aria nuova. Me l’aveva confidato mia madre quando un giorno le avevo chiesto il perché di quel suo allontanamento dall’Italia. D’estate, trascorrevo lunghi periodi dai nonni. E col tempo, tornammo a vivere in Italia. Ero ancora una bambina, ma capivo che tra lei e i genitori, non c’era una vera intesa. Crescendo, ho capito che mia madre non si è mai sentita parte di quel piccolo nucleo famigliare, anche se non le ho mai fatto una domanda diretta. Di certo, c’era la sua insofferenza ogni volta che veniva a prendermi, dopo un weekend passato dai nonni. Capitava spesso che tra lei e la nonna ci fossero dei battibecchi. Non ho mai visto mia madre sorridere in quella casa. Era come se cambiasse personalità. La sua gentilezza, il suo ottimismo… svanivano tra quelle mura. Quando madre e figlia discutevano un po’ più animatamente, il nonno non interveniva mai. Mi guardava con quell’espressione seria che gli avevo sempre visto nello sguardo. Poi, quando si stancava di sentirle, mi diceva: “Dai vieni Sabrina. Andiamo in giardino a cercare le farfalle.”

Lui si sforzava di farmi divertire, ma non ne era capace. Quando morì, ne fui dispiaciuta, ma non piansi. Invece per nonna Rosa, versai fiumi di lacrime. Non riuscivo a capacitarmi per quel distacco. A differenza di mia madre, io avevo sempre visto in nonna Rosa, qualcosa di bello. In quei momenti bui, mi tornava in mente la sua voce orgogliosa, mentre mi mostrava un album di foto di mia madre da piccola. Cos’era successo tra loro? Non feci mai questa domanda alla nonna. Forse, non c’era una vera risposta. Erano solo due caratteri diversi. Non si erano scelte, ma credo che ognuna, a modo suo, avesse amato l’altra, senza mai dirselo davvero. Solo una volta, la nonna, mentre eravamo sole in casa, osò farmi una confidenza che riguardava il nome di mia madre. “Io non l’avrei chiamata Marianna” aveva detto di punto in bianco. Io ero trasalita. Stavamo facendo un dolce. L’avevo vista assorta nel mescolare gli ingredienti, invece lei era lontana anni luce da quella stanza. Forse non si era neanche accorta del mio turbamento perché continuò: “E’ stato tuo nonno a scegliere il nome, in omaggio a sua madre che era morta da poco. Io dovetti ingoiare il rospo e accettare il suo volere. Ma io l’avrei chiamata Roberta. Non trovi che fosse un bel nome da dare a tua madre?” E poi, quasi sottovoce aveva aggiunto: “Con quel nome, forse, l’avrei sentita più mia…”

Non tornammo più su quell’argomento e non ci pensai più fino a quando non lessi ciò che aveva scritto su quel quaderno blu.

Dopo che nonna fu sepolta, andai a cercarlo. Mi preparai una tazza di tè e, pensando a lei, iniziai a leggere.

Avevo immaginato di trovarci un diario con annotazioni, forse delle poesie o magari una lettera per me. Invece, fin dalle prime righe, capii che lì dentro era narrata una storia, fatti che lei riteneva importanti avvenuti tanti anni prima. Il racconto non era molto lungo. Ci misi poco a leggerlo tutto. E quando terminai, mi sentii triste, non per me, ma per lei.

In quel momento ritornai a quel bacio col nonno al loro anniversario, e i nostri occhi che si erano incontrati come in un appuntamento. Che nonna fosse stata o meno fedele nel narrare quei fatti, a mio parere non era rilevante. Ognuno di noi ricorda la parte della storia che più lo coinvolge, tralasciando forse, altri particolari, altri punti di vista.

Scansai il sacco della spazzatura riempito di tutto ciò che un tempo sembrava indispensabile e pensai al nome che nonna Rosa voleva mettere a mia madre. Aveva cercato una scappatoia cercando un compromesso che le era stato negato. Risentivo allora quel suo tono pacato e un po’ malinconico, che mi chiedeva: “Non trovi che Roberta sarebbe stato un bel nome da dare a tua madre?” Ma io non avevo intuito il bisogno che nonna Rosa aveva di confidarsi con me. Per questo aveva voluto che io, e io soltanto, leggessi le sue memorie. Mandai un bacio a nonna Rosa e anche a Hubert, un uomo per cui lei aveva vissuto tutta una vita in silenzio, imparando a mascherare i suoi veri sentimenti, e lasciando a me dubbi e perplessità. Non avevo appigli per cercare Hubert, non conoscevo nemmeno il suo cognome, ma promisi a me stessa che avrei fatto in modo di scoprirlo.

E mentre tornavo a occuparmi delle cose da buttare, mi imbattei nella scacchiera di nonno Giacomo. Quante partite erano state giocate in quel lontano quarantasei! A quel tempo il nonno era solo un ragazzo, ma che si atteggiava a uomo adulto. Presi in mano la scacchiera, e solo allora, mentre la stavo esaminando, mi accorsi di una firma. Era ancora leggibile, era scritto: Hubert Clark. Quella scacchiera era rimasta a casa dei nonni fin da quella lontana Pasqua del quarantasei. Non riuscivo a credere di aver ottenuto un indizio così importante in così breve tempo. Adesso avrei potuto provare a cercarlo quel coltivatore di rose di un tempo. Adesso avevo anche un cognome su cui lavorare.

Fuori dalla finestra, il sole stava tramontando. Mi incantai a guardare quel rosso dalle variegate striature. Quasi sobbalzai quando sentii lo squillo del cellulare. Era mia madre. Non riusciva a credere che fossi ancora a casa della nonna.

Quando riattaccai, fui invasa da un velo di tristezza. Per mia madre, non c’era nulla da salvare. Fosse stato per lei, tutto sarebbe andato al macero, distrutto, dimenticato. Ma le cose a volte, hanno un grande potere, perché ti raccontano storie che sanno d’amore pur senza parlare, come quel fermaglio per capelli che nonna Rosa mi regalò tanti anni fa. Era stato per un mio compleanno. “L’ho fatto confezionare apposta per te dalle mani esperte di una mia amica. Il fiore è in pura seta” Nonna aveva voluto precisarlo come se temesse il giudizio di mia madre che da un momento all’altro avrebbe potuto criticarla. Ma quella volta mia madre non disse nulla, anzi… ne apprezzò il colore dicendo: “Sarà perfetto sui tuoi capelli biondi.” Quella spilla che riproduceva una rosa nera, adesso acquistava un significato ancor maggiore.

La vita di nonna Rosa, era stata intrappolata in una strada che non era più la sua, ma lei, aveva fatto del suo meglio per percorrerla. Di nuovo, tornai a pensare alle feste comandate e alla sua dedizione nel preparare il cibo per tutti.

Aveva preparato un buon pranzetto anche in quella lontana Pasqua del quarantasei: coniglio, patate e crauti. Quel menù non era mai cambiato e adesso, capivo anche questo. Era il suo modo per rimanere aggrappata a un passato che non c’era più.

Anche Hubert aveva viaggiato in mondi diversi, riempiendo la mente e il cuore di nuove emozioni, ma ero certa che nemmeno lui aveva dimenticato Rosa. Mi piace immaginarli insieme, finalmente liberi di raccontarsi cosa accadde davvero in quella Pasqua del quarantasei. Ridendo felice per quello che forse era stato, un clamoroso equivoco.


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