«Mamma, vado a vivere con Sebastian…» Provavo e riprovavo il mio discorso, come fosse stato il copione di uno dei miei monologhi senza riuscire a sentirmi pronta. Questa non era una commedia. Di finzione non c’era niente. C’era solo la volontà di cambiare vita, di lasciare quella casa che non mi apparteneva più. Sebastian non era un ripiego, ma non potevo negare data la mia giovane età, che mi avesse facilitato la strada, aiutandomi dove io non sarei arrivata, non così presto almeno.
Quand’ero bambina osservavo la grande casa dove la mia mamma era nata e mi sentivo fiera di abitarla.
Nonostante fosse un casale di campagna, costruito verso la fine dell’ottocento, ai miei occhi di bambina tutto era bello. Le crepe sui muri iniziai a vederle solo diversi anni dopo. Tutto ciò che a me interessava era correre a nascondermi negli angoli più nascosti della casa e ridacchiare silenziosamente mentre sentivo i passi della nonna che mi cercavano. La sua voce era suadente. Spesso, per farmi uscire allo scoperto, cominciava a menzionare gli ingredienti del mio budino preferito. Io deglutivo, cercando di resistere, ma poi uscivo allo scoperto urlando: «Nonna! Sono qui!» Correvo da lei abbracciandola. Sentivo le sue ossa magre, in contrasto col suo abbraccio forte e sicuro. Per me, nonna Rina era tutto ciò che mia madre non era: affettuosa, allegra, paziente e magra. Mia madre non aveva preso niente da lei, ma sembrava andassero d’accordo. In tanti anni non le avevo mai sentite litigare. Solo una volta avevo udito la nonna dire: «E controllala quella lingua ogni tanto! Hai sempre criticato tuo padre per i suoi giudizi taglienti e non ti accorgi che fai lo stesso.» Quella volta mia madre non aveva replicato, ma quando il nonno era tornato a casa, avevo cercato di intuire cosa non andasse tra loro.
Ero cresciuta tra i grandi. Avevo altri due cugini che avevano cinque anni più di me. Due cugini figli di altri due fratelli di mia madre. Oggi, ripensandoci, credo che mi sarei sentita molto sola se non avessi avuto nonna Rina a rallegrarmi le giornate, almeno fino ai miei dieci anni, quando nacque mia sorella Sofia.
Da quel momento iniziai a sentirmi davvero sola. Nonna Rina c’era sempre, ma Sofia si prendeva tutte le attenzioni che prima erano riversate su di me. Ne ero gelosa. Mia sorella sembrava una bambolina di porcellana. Non potevo toccarla, nemmeno per farle una carezza. Iniziò da lì il mio desiderio di andarmene.
E così, una mattina chiesi di non essere accompagnata a scuola, volevo andarci a piedi. Stranamente fui accontentata.
Conoscevo il tragitto come le mie tasche, ma non avevo mai provato l’ebrezza di percorrerlo da sola.
Arrivai in classe mentre suonava la campanella. Ero trafelata, il cuore batteva forte e le mie guance erano arrossate, ma ero contenta perché per me quella era stata una grande impresa. Avevo sperimentato cosa si provava nel fare qualcosa da soli. E mi sentivo felice. Così, ogni giorno, mentre camminavo fiera verso la scuola, iniziavano i miei primi dialoghi interiori. Immaginavo incontri improbabili, come quello di un principe a cavallo, o quello di un ricco commerciante che mi regalava stoffe preziose e diamanti luccicanti. Arrivavo a scuola con aria sognante e poca voglia di ascoltare l’insegnante.
Una mattina fui attratta da un volantino affisso sulla bacheca della scuola. C’era sempre di tutto, dai corsi extra scolastici ai libri da vendere. Questo annuncio era diverso e diceva più o meno così: “Hai voglia di metterti in gioco? Iscriviti ora al corso di recitazione che si terrà tutti i mercoledì pomeriggio nell’aula di disegno”. Quello stesso giorno ne parlai a tavola. E mentre mia madre imboccava Sofia che ormai aveva quattro anni, io aspettavo un suo segno. Mio padre era spesso via per lavoro, ma quel giorno era lì, seduto a tavola con noi. Sembrava distratto, ma non appena riuscii a esporre il mio desiderio, rispose, al posto di mia madre. «Carolina, da quando hai queste velleità artistiche?»
Nonostante fosse mio padre, avevo poca confidenza con lui. Si assentava spesso, a volte anche per molti mesi. Quella domanda così inaspettata, ebbe l’effetto di farmi sentire a disagio. «Forse tua figlia ha preso anche da te!» esclamò mia madre con un certo sarcasmo.
Che fossero una coppia male assortita l’avevo capito anch’io. Ma si vedevano talmente poco assieme che quasi non ci facevo caso. In quel momento però, incuriosita da quell’affermazione, chiesi a mio padre: «Anche a te piace il teatro?»
Mio padre mi lanciò un’occhiata distratta e senza rispondermi si alzò dal tavolo. Solo sulla soglia della porta disse: “Vieni Carolina, devo farti vedere una cosa.»
Mi alzai dalla sedia con poca convinzione. E intanto mia madre aveva ripreso a fare moine a mia sorella, senza badare più a me.
Nonna Rina quel giorno non c’era. Non sapevo se potevo fidarmi di mio padre. C’era in lui un alone di mistero che mi metteva in apprensione. Ai miei occhi era quasi un estraneo.
Lo raggiunsi nello studio. Lui si era acceso un sigaro e guardava fuori dalla finestra. Io ero rimasta sulla soglia, impacciata e timorosa. Poi, lui si girò e sorrise. Avevo preso da lui, avevo il suo stesso sorriso. Quando andò a sedersi allo scrittoio, mi disse di sedermi accanto a lui. Avevo ubbidito lasciando però la porta aperta. Un segno di protezione, se per caso avessi dovuto fuggire da lì. I suoi occhi, nell’incontrare i miei, avevano compreso, ne ero certa, i miei turbamenti. Non disse niente al riguardo. Invece aprì un cassetto e ne tirò fuori due fogli. Mi chiese di avvicinarmi e allora li vidi. Erano due diplomi dove spiccava il nome di mio padre. «Diploma di partecipazione al corso di recitazione per l’anno accademico…» Lessi quella dicitura a bassa voce e poi lo guardai. D’un tratto non lo temevo più. Lo vidi invece come un mio simile, un mio alleato!
Lo tempestai di domande riprendendo in un attimo tutta la confidenza che avevo perso. Alla fine gli chiesi come mai tenesse chiusi in un cassetto quei diplomi. Lui si rabbuiò. Capivo che era difficile per lui rispondermi. Ma poi disse: «A tua madre non faceva piacere…»
Quella notte ripensai al pomeriggio trascorso con mio padre, e nonostante i miei quindici anni, sentivo di essere solidale con lui. Quell’uomo che troppo spesso si assentava da casa, era diventato in un attimo colui che capiva più di tutti il mio stato d’animo. Rammento quel periodo con profonda nostalgia. E quando lo vidi imboccare il vialetto di casa con la sua immancabile valigia marrone, gli corsi appresso e gli buttai le braccia al collo sussurrando: «Torna presto a casa papà» lui, visibilmente commosso, mi stampò un bacio in fronte e mi carezzò i capelli.
Lo vidi oltrepassare il cancello e salire su una macchina che l’aspettava. Un giorno mi arrivò una cartolina da Siviglia, era indirizzata soltanto a me. Raffigurava il Teatro della Maestranza e diceva così: “Ciao Carolina, un giorno varcheremo assieme questo splendido teatro. Baci, papà”
I miei occhi si erano riempiti di lacrime. Ricordavo ancora la mia titubanza nel seguirlo nello studio, neanche un anno prima e mi dispiaceva avere anche solo provato timore verso di lui.
In quel momento invece, avrei voluto abbracciarlo e dirgli che mi mancava, mi mancava tanto. Avrei voluto avere un indirizzo per potergli scrivere. Raccontargli come procedeva il corso di recitazione. I momenti belli …i momenti brutti. Le volte in cui mi sentivo sciocca, e quelle in cui cercavo di illudermi che la mia strada fosse il teatro. Più crescevo, più sentivo la mancanza di questo padre sempre più assente. Chiedevo spesso di lui, di quando sarebbe tornato, e come mai stavolta tardava a tornare. Un giorno nonna Rina mi rimproverò dicendo che non dovevo aspettarlo. E poi, con aria malinconica disse: «Rimpiango la Carolina di un tempo, quella che correva a nascondersi e che impazziva per i miei budini…»
Ero corsa in camera mia e lì avevo dato sfogo a tutte le mie lacrime. Ero sempre più sola. I miei due cugini erano andati a studiare in Inghilterra. Eravamo rimaste io e Sofia. Mia sorella era quasi un’estranea per me. Avevamo dieci anni di differenza, non c’era niente che potessimo condividere.
Mi ero iscritta a un altro corso di teatro in un paese poco lontano dal mio. Quello era l’unico posto in cui mi sentissi viva. Ogni tanto riguardavo la cartolina che ormai quasi due anni prima mio padre mi aveva spedito. Ogni volta era per me una fitta di dolore.
Che fine aveva fatto mio padre? Perché non tornava più a casa?
Stavo anche pensando di smettere con la recitazione perché mi sentivo in stallo. Gli attori, per non parlare degli insegnanti, non mi stimolavano più. Forse ero io che non andavo bene e non loro.
Poi, in un pomeriggio grigio in cui tutto sembrava piatto, mentre pensavo di alzarmi da quella sedia e andarmene per sempre, la porta si aprì quasi con violenza e sulla soglia apparve lui, facendo entrare anche il sole. Avrei giurato di vederlo fare capolino mentre gli scrosci di pioggia continuavano a boicottarlo. «Ben arrivato Sebastian!» esclamò il nostro insegnante. Sono certa che tutte noi femminucce avessimo lo stesso pensiero comune: “ma quanto è bello Sebastian!”
Il nuovo arrivato andò a sedersi accanto al nostro maestro Claudio, e non appena lo sentii parlare, mi chiesi anche cosa, o chi mai l’avesse portato in quella miseria di teatro.
Sebastian disse che avrebbe aiutato Claudio formando un gruppetto che avrebbe scelto dopo averci sentito recitare.
Senza perdere tanto tempo ci chiamò a uno a uno e senza un minimo di preparazione, ci chiese di fare un monologo.
Io scelsi “Il matrimonio della Lena” di Carlo Bertolazzi, storia di una ragazza nata per errore in una famiglia che non l’ama e prima di andarsene da casa, Lena pronuncia il suo atto d’accusa.
Quando mi trovai davanti a Sebastian, accadde qualcosa di strano. Iniziai il monologo, il mio preferito, quello che in un certo senso sentivo anche un po’ mio, e recitai come non avevo fatto mai. Sebastian mi fissava ma io non lo guardavo. Era come se davanti a me ci fosse la mia famiglia e quelle parole uscissero dritte dal mio cuore condannando gli astanti senza pietà.
Dopo che ebbi terminato, ci fu un attimo di silenzio. Poi, Sebastian disse: «Tu farai parte del mio gruppo.»
Sentii un formicolio attraversarmi tutto il corpo. Avrei voluto correre a casa e raccontarlo subito a mio padre, ma proprio in quelle ore, lui stava affrontando un delicato intervento al cuore.
Quella stessa notte, quel cuore, avrebbe cessato di battere. Lo seppi il giorno dopo al rientro da scuola. Sentii il mondo crollarmi addosso. Di lui mi restava una cartolina da Siviglia e il suo desiderio di varcare assieme a me quel teatro che vi era raffigurato. Ripensavo al nostro ultimo incontro. Al suo bacio in fronte e alla sua mano che carezzava i miei capelli.
Nonostante non l’avessi più visto e nemmeno sentito, ne percepivo la vicinanza, anche in quel momento. Forse mi stavo solo aggrappando a delle sensazioni, ma erano meglio del vuoto che percepivo tra le mura di una casa ormai, a me ostile. Sebastian allora, divenne il mio unico punto fermo. Era diventato il mio faro. Una luce a cui guardare per non cadere nel buio e nel silenzio. Aveva otto anni più di me, era ancora un ragazzo, ma aveva già visto tanto del mondo, che a me sembrava molto più maturo dei suoi ventiquattro anni.
Parlava molto bene spagnolo, e un giorno ci recitò un monologo divertente in quella lingua. Non capivamo niente, ma la sua faccia buffa e il suo modo di parlare, ci aveva fatto ridere molto.
Fu proprio alla fine di quella lezione che mi si avvicinò e mi sussurrò all’orecchio: «Sarebbe bello se io e te recitassimo insieme in spagnolo!» Io ero rimasta a bocca aperta, incapace di dire niente. Ma lui aveva continuato: «Se ti fa piacere posso insegnartelo io lo spagnolo…» Erano iniziate così, le nostre conversazioni al di fuori delle lezioni.
Non avevo mai studiato spagnolo, ma con Sebastian ogni cosa sembrava facile. Sentivo che aveva fiducia in me, questo era motivante e mi faceva dimenticare le tristezze della mia grande casa. Lui mi parlava del suo sogno di acquistare una casa al mare in Andalusia nei pressi di Malaga. Nei suoi racconti c’era tanta nostalgia per quella terra che era la sua. Un giorno mi disse: «È da quando ti conosco che penso a come sarebbe bello farti vedere i posti della mia infanzia…»
E senza parlare, lui mi aveva carezzato i capelli. Era bastato quel semplice gesto perché io mi sciogliessi e raccontassi a Sebastian ciò che avevo nel cuore. La mancanza che sentivo per mio padre e il rammarico per i tanti anni persi dove mancavano le foto, a testimoniare momenti di vita. Allora Sebastian mi prese tra le braccia e mi strinse forte, e tra i capelli, lo sentii sussurrare: «Te amo!» In quel momento l’unica cosa che feci fu di stringerlo a me con più forza. Ma lui si staccò lievemente e prendendo il mio mento tra le mani mi costrinse a guardarlo. Allora mi alzai in punta di piedi per raggiungere la sua bocca. Ero stordita, impreparata, ma ciò che stava succedendo tra noi era qualcosa di magico e bello. Nonna Rina fu la prima ad accorgersi del mio cambiamento. «I tuoi occhi sono più luminosi» aveva detto un giorno mentre eravamo sole. Così il nome di Sebastian era uscito senza nessun impedimento. La nonna però non mi era sembrata molto felice. Aveva manifestato la sua preoccupazione per il tipo di vita che gli attori fanno. Aveva poi aggiunto: «Per te è solo un hobby, ma forse per lui è un lavoro. Un lavoro che lo porta a girare per i teatri di tutta Italia e magari anche d’Europa. Lo capisci vero?» D’un tratto anche nonna Rina mi sembrava contro di me. Non avevo voluto confutare le sue parole, ma le avevo fatto solo un’unica domanda: «Chi ti dice che la recitazione sia solo un hobby per me?» Non le avevo dato il tempo di rispondere. Me n’ero andata in camera mia lasciandola lì da sola. Quella stessa sera mia madre, lasciando perdere per un po’ la piccola Sofia, mi aveva chiesto di Sebastian. Non girai attorno alla cosa. Le raccontai chi era e che da poco stavamo assieme.
Lei non mi aveva fatto prediche di nessun genere. Non si era nemmeno raccomandata che stessi attenta. Alla fine aveva solo mormorato: «Sei il fantasma di tuo padre. Fai come vuoi ma non metterti in mezzo ai guai. Almeno fino alla tua maggiore età. Poi sarai libera di scegliere.»
Ai diciotto anni mancavano ancora due anni. Mi chiedevo come avrei resistito per tutto quel tempo.
Eppure, nonostante la mia poca voglia di stare a casa, il primo anno passò quasi indenne. Io e Sebastian eravamo sempre più affiatati. Il mio spagnolo migliorava di giorno in giorno, tanto che un pomeriggio, dopo la lezione, Sebastian mi diede un piccolo monologo da leggere. «Quando te la senti, lo proviamo assieme» disse speranzoso. Amavo quel suo modo di coinvolgermi e di darmi fiducia senza però opprimermi. Così ogni sera, provavo nella mia stanza a leggere e interpretare ciò che Sebastian mi aveva propinato. Era la storia di un’ape che si era stancata di andare di fiore in fiore. Aveva perso il suo scopo primario e si sarebbe lasciata morire se un giorno non si fosse imbattuta in un fiore di rara bellezza. Era un unico fiore, davanti una distesa d’erba e l’ape, si convinse a raggiungerlo.
Il fiore, dapprima un po’ floscio, parve rianimarsi. Tanto era bastato, perché l’ape si sentisse più viva, accantonando quel malessere che tanto l’aveva afflitta.
Mentre il monologo diventava sempre più mio, riuscivo a visualizzare la scena. Immaginavo l’essenza del fiore, il suo profumo. Il piacere dell’ape nel succhiare quel nettare. E ciò che era più bello, era sapere che entrambe ne avevano tratto beneficio.
Alla soglia dei miei diciassette anni, Sebastian mi propose di mettere su uno spettacolino. Non ero più soltanto una sua studentessa, ma ero diventata anche la sua collaboratrice.
Una sera, mentre eravamo al bar, senza dirgli niente, iniziai il monologo dell’ape e del fiore in spagnolo. Sebastian era rimasto a bocca aperta. E io notai che i suoi occhi brillavano di felicità.
Per l’occasione brindammo con del vino della casa. Quando uscimmo eravamo entrambi alticci. Nonostante il vino, sapevo cosa volevo. Proposi io a Sebastian di andare da lui.
Piano piano ci incamminammo verso il suo piccolo monolocale. E quando entrammo, fu naturale abbandonarci l’uno tra le braccia dell’altro. Solo al mattino, quando la luce iniziava a filtrare attraverso la persiana, cominciai a realizzare ciò che era successo. Per la prima volta in tutta la mia vita, non avevo dormito nel mio letto. E come se già mi sentissi un’estranea, non riuscivo a provare nessun rimorso per questo. La distanza tra me e la mia famiglia stava diventando una voragine.
Sentii Sebastian muoversi. Solo allora mi accorsi del grande poster sul muro difronte al letto. Raffigurava una spiaggia enorme e un mare cristallino. con la dicitura: “Andalusia”
Pensai a mio padre, al fatto che anche lui era stato in Andalusia. Pensai che quello era un segno che lui mi stava lanciando. Sarebbe stato bello essere lì in quel momento, solo io e Sebastian. Sentivo che lì avrei potuto ricominciare una nuova vita e che anche mio padre ne sarebbe stato felice.
«Quella è Playa de Castilnovo» la voce di Sebastian mi giunse inaspettata, tanto da farmi sussultare. Per tutta risposta lui si mise a ridere e mi attirò a sé, poi disse: «Scusami Carolina, ti vedevo così rapita da quell’immagine che ho pensato ti avrebbe fatto piacere sapere cosa fosse.» E siccome io ancora non parlavo, lui continuò: «Quella spiaggia che vedi non è molto lontano da casa mia. Il paese da dove vengo si chiama Conil de la Frontera. La mia famiglia, si trova in America ma io, se mai dovessi tornare, sarà a Conil che andrò.»
Quel giorno, dopo la sfuriata di mia madre e una ramanzina un po’ più mite di nonna Rina, andai in camera mia. Mi sembrava pazzesca tutta la situazione. Risentivo l’abbraccio di Sebastian. Era come se lui fosse lì con me. E poi sognavo noi due in quella grande spiaggia dell’Andalusia. Più ci pensavo, più desideravo vederla. Ero certa che non me ne sarei più andata via.
Il nostro monologo in spagnolo, fu un successo. E mentre festeggiavamo nel suo piccolo monolocale, presi coraggio e dissi: «Vorrei visitare Conil e le sue spiagge. Vorrei vedere la casa dove sei cresciuto. Ci penso ogni giorno e ogni giorno mi viene più pesante dover rimanere qua e vivere nella grande casa coi nonni, mia madre e Sofia…»
L’espressione di Sebastian era indecifrabile. Alla fine, dopo un lungo sospiro, disse: «Per quanto io ci sia affezionato, e per quanto io desideri tornare, la realtà è che quello è un paese con nessuno sbocco, almeno per gente come noi. D’altra parte, è per questo che me ne sono andato non appena ho potuto. Se non avessi bisogno di lavorare, non sarei mai partito, credimi…» Dopo quelle parole, mi sentivo delusa e amareggiata. Per un attimo avevo sperato che qualcosa cambiasse. Avevo creduto che me ne sarei andata cambiando vita, lasciandomi alle spalle il posto dov’ero nata, quella grande casa che mi ero illusa di amare e dove invece, l’amore era stato centellinato. Dove la figura di un padre era stata distorta e distrutta. Covavo rancore verso mia madre che mi aveva voltato le spalle fin da piccola e che dopo la nascita di Sofia era stata pressoché assente.
E nonna Rina? Avevo riposto tutta la mia fiducia di bambina verso di lei. Per anni avevo creduto di potermi fidare di lei. Ma anche questa fiducia era venuta meno. Il muro tra noi stava diventando sempre più alto e sempre più spesso.
Sebastian pareva leggere ogni mio disappunto, ogni mio pensiero. Mi venne più vicino e mi prese le mani tra le sue, poi, con molta calma, disse: «So cosa provi Carol» Era l’unico che mi chiamava così. Lui continuò: «I miei genitori hanno lasciato la Spagna che non avevo ancora compiuto dieci anni. Mi lasciarono con la nonna per non farla sentire sola. Per molto tempo, io li ho odiati. Mi ero sentito non voluto. Non avevo invece considerato il fatto che con nonna Inés sarei stato più libero di fare, e che grazie a lei, avrei trovato la mia strada. Inés era stata una discreta attrice ai suoi tempi. È stata lei a farmi fare i miei primi passi nel mondo della recitazione. Ed è stata sempre lei a farmi mettere in contatto col suo amico italiano per iniziare seriamente un percorso da attore di teatro. Quindi… chi più di me vorrebbe tornare a casa e magari presentarle la mia splendida ragazza?» «Perché non lo facciamo allora?» chiesi speranzosa.
Sebastian si rabbuiò, poi disse: «Perché Inés non c’è più. Se n’è andata poco tempo dopo che ero arrivato qua. È stata la signora delle pulizie a trovarla. Inés era ancora a letto. Forse non si è accorta di niente. Sono riuscito a prendere il primo volo per Siviglia e organizzare il funerale. In quel periodo io e te ancora non ci frequentavamo, ecco perché non ti ho detto niente. E poi… se penso all’Andalusia, mi intristisco perché lei non c’è più…»
«Capisco.» dissi. In quel momento pensai a nonna Rina e la tristezza prese il sopravvento. Pensavo ai nostri momenti belli che ormai non c’erano più. D’un tratto Sebastian chiese: «Davvero te ne andresti da qui? Lasceresti tutto per andare in un posto nuovo illudendoti che sarebbe meglio di questo?»
Stavo per alzarmi e andarmene. Ne avevo abbastanza di tutto quel parlare, dove l’unica prospettiva sembrava essere il rimanere esattamente dov’ero. Ma poi Sebastian parlò, e ciò che disse mi fece desistere dall’andarmene.
«C’è un’altra possibilità. Ascoltami Carol. Ho una discreta somma di denaro che mia nonna mi ha lasciato. Potremmo pensare di acquistare una piccola casa in un posto più grande di Conil, magari a Malaga…» «Sarebbe bello!» esclamai cautamente. Ma intanto, quella frase aveva riacceso la speranza nel mio cuore. Avevo allora cercato notizie per conto mio su Malaga. Più cose scoprivo, più il desiderio di andarci, cresceva. Sognavo di vedere il museo dedicato a Picasso, o i tanti altri musei della città, come quello di Arte Flamenca. Ma sognavo soprattutto di vedere Siviglia e quel teatro a cui mio padre teneva tanto. Dopo ogni lezione, speravo che Sebastian dicesse qualcosa a riguardo del nostro progetto, invece lui taceva. E se per caso provavo a stuzzicarlo su questo argomento, diceva: «Carol, ho un contratto qui. Non posso andarmene e mollare tutto così.»
Ma poi, un giorno accadde qualcosa che mi fece battere il cuore più forte che mai. Alla fine della lezione di recitazione, Sebastian fece un annuncio a sorpresa, disse: «Dal prossimo mese, avrete un nuovo insegnante. Io lo affiancherò nelle prime lezioni, poi sarà tutto vostro.» Io cercavo di scrutare il suo sguardo, ma avevo la sensazione che lui evitasse il mio, di proposito.
Al termine della lezione, quando tutti se ne furono andati, mi avvicinai a lui. Solo quando i nostri occhi si incontrarono, vidi i suoi brillare. Poi, con un mezzo sorriso, disse: «Be’? Non dici niente?» Ero sorpresa. Non sapevo cosa pensare. Se c’era qualcuno che doveva dire qualcosa, quel qualcuno era proprio lui. Invece Sebastian, con lo sguardo contrito, disse: «Non mi aspettavo questa reazione da parte tua. Hai per caso cambiato idea?»
Ero sempre più sconvolta, e anche arrabbiata per come lui stava gestendo quella cosa. Se ne andava dalla scuola senza prima parlarne con me? Con una maturità che forse nemmeno lui pensava avessi, dissi: «Avrei immaginato che tu mi mettessi al corrente dei tuoi pensieri e delle tue decisioni. Invece hai fatto tutto a modo tuo, aspettandoti magari che io ti battessi le mani.»
Non aspettai oltre. Alzai i tacchi e me ne andai.
Lui non corse verso di me. Lasciò che me ne andassi, senza fermarmi.
Quella sera andai a letto senza mangiare. Presi una camomilla ma dormii male. Il mattino dopo avrei saltato volentieri la scuola, ma avevo un compito importante e andai. Ero sempre stata un’alunna coscienziosa e diligente. Nonostante mi sentissi uno straccio, mi immedesimai sul compito da fare e il tempo volò in un baleno. Stranamente mi sentivo più calma, e quando all’uscita trovai Sebastian ad attendermi, lo trovai del tutto naturale. Lui venne verso di me. Non disse nulla, mi prese la mano e assieme ci inoltrammo verso casa. Durante il tragitto rimanemmo entrambi in silenzio. I nostri passi sostituivano le parole che ancora nessuno dei due aveva iniziato a esprimere. La sua mano era nella mia, e nonostante la sera prima me ne fossi andata via da lui arrabbiata, ma soprattutto delusa, sentivo che il suo calore era vitale per me. Ormai mancavano solo poche centinaia di metri e sarei arrivata a casa. Fu allora che la voce di Sebastian mi riscosse dal divagare dei miei pensieri. Lo sentii dire: «Carol, devo chiederti scusa se non ti ho coinvolto in questa cosa. Nell’ultimo mese non ho fatto altro che pensare al tuo desiderio di andartene. Ho contattato un’agenzia di Malaga incaricandola di trovare un posto adatto a noi due. Ieri mattina mi hanno chiamato informandomi che c’è una piccola casa in vendita da ristrutturare proprio a Malaga. Dovrei recarmi lì per capire se è una cosa fattibile oppure lasciar perdere. Ma le foto che ho visto non sono male. E poi il prezzo è più che buono.» Lasciai andare la sua mano e mi fermai, poi dissi: “Avresti potuto dire queste stesse parole ieri sera, invece il tuo comportamento era stato ambiguo e irritante. Inoltre, mi hai lasciato andar via senza rincorrermi…» Sebastian era rimasto in silenzio. Era dispiaciuto, lo sapevo, e io ero un po’ meno arrabbiata. Lo vidi trafficare dentro le tasche della sua giacca di lino, finché ne estrasse un piccolo pacchettino. «Con le mie scuse» disse, allungandolo verso di me. Io mi sentivo goffa. Mi misi a correre verso casa girandomi solo per dire: «Stasera passo da te.» Quando entrai in casa, trovai un piatto sopra il tavolo e una piccola nota scritta da nonna Rina che diceva così: “Abbiamo portato Sofia alle giostre. Il pranzo basta solo scaldarlo.” Nemmeno una piccola nota da parte di mia madre. Mangiai di malavoglia, mi cambiai e uscii. Camminai per il paese che conoscevo fin da piccola. Negli anni, alcune cose erano cambiate. C’erano nuovi quartieri, nuove aree verdi. Nell’0sservare i negozi, la biblioteca comunale dove spesso ero entrata, non riuscivo a capire se tutto ciò mi sarebbe mancato. Non provavo emozioni, di nessun genere. Forse dovevo soltanto partire per capire cosa provavo davvero per quel luogo tanto famigliare, quanto estraneo. Pensavo poi alla mia situazione, al fatto che comunque dovevo terminare la scuola. Solo quando mi focalizzavo su questo, su questo gradino ancora da superare, capivo che davvero più niente mi avrebbe impedito di andare. Quella sera, a casa di Sebastian, l’atmosfera era tornata serena. E quando lui mi fece vedere le foto della nostra probabile nuova casa, rimasi folgorata dalla bellezza del posto. Qualche lavoro era necessario, ma già l’amavo.
Quello che seguì, fu un periodo intenso. Studiavo per il diploma, ma inevitabilmente, la mente andava a Malaga. Quando, dopo un’attesa infinita, arrivarono i risultati degli esami sentii un peso che piano piano scendeva dalle mie spalle. Mi sentivo come se stessi per aprire il cancello della mia libertà.
Sebastian, dopo un periodo di lontananza, stava tornando, ma solo per prendermi e portarmi con sé. Io mentalmente ripassavo, come fosse un copione, la mia parte. Non dovevo chiedere niente, avevo solo da dire a mia madre che avrei lasciato quella casa e che sarei andata a vivere con Sebastian. Negli anni spesso mi sono chiesta se avrei preferito sentire una, seppur lieve, incrinatura nella voce di mia madre. Se quella sua postura altezzosa, si fosse piegata di qualche millimetro, solo per farmi capire che un pochino ne soffriva, che ci teneva un po’ anche a me. Invece, mentre con una certa titubanza le esponevo le mie ragioni, vedevo solo due freddi occhi grigi che mi osservavano, quasi disturbati da quel colloquio che le avevo chiesto. Spesso mi sono domandata se quel comportamento sia stato il motivo di qualcosa di più grande che lei non ha mai voluto condividere con me. Ma alla fine, anch’io mi sono resa conto che stavo esponendo le mie ragioni a un’estranea e che, per quanto triste, non provavo niente per quella donna.
E quando, dopo un silenzio imbarazzante, mia madre disse: «Allora fai pure la tua valigia e vattene da questa casa che tanto ti opprime» Con un certo orgoglio, mi sentii di dire: «La valigia è già pronta» Mentre uscivo da quella casa, la voce di nonna Rina mi raggiunse. Con un groppo in gola disse: «Ci ho provato, ma non è possibile sostituire una madre…»
Le lanciai un bacio. Dopotutto lei era sempre stata una buona nonna. Quando chiusi il cancello dietro di me, sapevo che non tutto sarebbe stato facile, ma la voglia di provarci era tanta.
E mentre l’aereo ci portava verso nuove sfide, finalmente tirai fuori il pacchettino che Sebastian mi aveva dato. La sua buffa espressione mi fece ridere, così dissi: «Se ti dico che l’avevo dimenticato, mi credi?» Lui non rispose. Sentivo il suo sguardo mentre scartavo il pacchettino. Tra le mani mi ritrovai un piccolo portagioie in legno con un bellissimo ricamo floreale che raffigurava delle rose. «È molto bello!» esclamai. Ma quando alzai gli occhi, vidi Sebastian che tra le mani teneva una scatolina di velluto blu. Con gli occhi lucidi e una voce incrinata dall’emozione, disse: «Non immaginavo di dartelo in quota, ma credo non ci sia momento migliore di questo. Carol, mi vuoi sposare?» In quel momento pensai che la cosa migliore che potesse capitarmi era diventare la moglie di Sebastian, perciò lo abbracciai stretto e con la voce rotta dal pianto, dissi: «Sì, non appena scendiamo da qui»
E oggi che tengo tra le braccia la nostra bambina, sento ancora più forte il desiderio di darle ciò che a me è sempre stato, se non negato, centellinato. E mentre Sebastian posa le sue labbra sulla tenera testa di nostra figlia, rivedo quello stesso gesto fatto da mio padre tanti anni fa. Ogni tanto la tristezza mi assale pensando a lui. Ma poi passa. Lo immagino in quel suo continuo viaggiare. Chissà… un giorno potrebbe ripassare da qui in Andalusia. Poserebbe i suoi occhi sulle mie bouganville, alzerebbe lo sguardo, e da perfetto gentiluomo, mi saluterebbe con un sorriso togliendosi il cappello dalla testa.
Non accadrà, lo so. Ma i sogni fanno bene all’anima.
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