Quel mattino, un tenue raggio di sole era già penetrato dalle persiane quando aprii gli occhi. Ero sola a letto, ma sentivo quei rumori famigliari che arrivavano dalla cucina. Mio marito stava preparando la colazione. Quando mi affacciai alla porta, la tavola era già imbandita, dovevo solo sedermi e mangiare, ma l’improvviso squillo del mio telefono, mi fece sobbalzare. Era il dottor Preston. Aspettavo una sua chiamata ma non pensavo che fosse così veloce. Mio marito mi osservava. Dai suoi occhi potevo leggere apprensione per una faccenda che si trascinava da troppo tempo ormai. “Ha il risultato” dissi, non appena posai il telefono. Ero dispiaciuta per la colazione, ma non riuscii a mandar giù nulla a parte il mio caffè d’orzo e una fetta biscottata con un velo di marmellata. Riferii a mio marito che l’appuntamento era fissato per quella mattina alle dieci nello studio del medico. Due ore passarono in fretta e alle dieci in punto il dottor Preston aprì la porta e ci fece accomodare. Nonostante fuori il sole fosse alto, in quella stanza sentivo i brividi. Forse era il nervosismo, o forse era solo colpa di quelle tende che non facevano penetrare la luce all’interno. Il responso era scritto su quel foglio che il dottore teneva in mano. Non c’era bisogno di leggerlo, ciò che c’era scritto era facilmente intuibile dall’espressione facciale del medico. Comunque, il dottor Preston con tutta l’empatia che riuscì a dimostrare disse: “Mi spiace signora Green, purtroppo il DNA non corrisponde. Il medico si era alzato e come se fossimo andati a comando, anche io e mio marito lo imitammo. “Ci avevamo sperato tanto” sentii dire dalla voce di mio marito. Io mi appoggiai a lui. Avevo bisogno solo del suo abbraccio. Quando uscimmo di lì, dissi: “Stavolta ci avevo sperato davvero.” Mio marito mi prese per mano e assieme ci avviammo alla macchina. Lentamente uscimmo fuori dal traffico. Distesi la testa sul sedile e chiusi gli occhi. Sentivo il sole che mi scaldava attraverso il finestrino. Incredibilmente mi addormentai. Sognai mia figlia, ne sentivo la voce, una voce da adolescente che non avevo mai sentito. Quando aprii gli occhi, tutto attorno a me era silenzio. Eravamo nel nostro rifugio estivo, il nostro posto magico. Una casetta in legno nascosta tra gli alberi dove avevo sempre creduto vi regnasse la pace. Mi girai verso mio marito. “Perché proprio qui?” gli chiesi incredula. Lui mi sorrise, lo sentivo sereno e fiducioso. Mi baciò dolcemente poi disse: “Penso spesso a questo posto. Cerco di ricordare le cose belle, lo sguardo meravigliato di Sofia quando le mostravo un fiore appena sbocciato, le sue manine che si agitavano in aria mentre inseguiva le farfalle… Sono passati dieci anni dalla sua scomparsa. Ecco, a quel giorno, non ci penso mai. Ma oggi davanti all’evidenza di un’altra falsa pista, ho sentito il bisogno di venire qua. E in un modo o nell’altro, sento che lei ci sta cercando.” Non so da dove arrivasse il mio improvviso ottimismo, forse mi stavo soltanto aggrappando a un tenue bagliore di speranza, ma sentii la mia voce dire: “Non ci arrenderemo, prima o poi Sofia tornerà da noi”. Quando pronunciai quelle parole, non avevo idea di quello che sarebbe successo di lì a poco. Fu di nuovo lo squillo del mio telefono a spezzare quel fragile equilibrio in cui io e mio marito eravamo entrati. Quando vidi di chi si trattava, il cuore cominciò a palpitarmi in gola. Eravamo quasi entrati in casa, ma ci fermammo sui gradini incapaci di proseguire. La voce del dottor Preston stava farfugliando delle scuse. In quel momento, tutto il mio ottimismo di poco prima era scomparso. Non ero lucida. La mia emotività aveva raggiunto un limite di sopportazione tale che, senza comprendere il motivo di quella chiamata, preferii consegnare il telefono a mio marito. Quando alla fine chiuse la comunicazione, lo vidi impallidire. Mi disse solo: “Dobbiamo tornare dal dottor Preston. Il DNA, quel DNA… corrisponde. Non so cosa sia successo, ma non mi importa. Hanno trovato Sofia!” Ripercorremmo il tragitto, stavolta con uno stimolo nuovo. Ero elettrizzata, emozionata e impaziente di rivedere mia figlia. E quando riuscii a stringerla finalmente a me, singhiozzando riuscii solo a dire: “Ci vorrà del tempo, ma torneremo a vivere” Sofia si staccò da me. Era diventata alta. L’ultima volta che l’avevo vista aveva cinque anni, adesso ne aveva quindici. Avevamo perso dieci anni delle nostre vite. Avevo sempre temuto che lei potesse dimenticarci, invece, adesso sapevo che Sofia non ha mai perso la speranza di ritrovarci. Di fatto, era stata lei a cercarci. Mio marito, ricomparve. Aveva un sorriso radioso che avevo dimenticato. Sofia ci prese per mano e con calma disse: “Mamma, papà, avrei tanta voglia di vedere il mare…” Non sapevo nulla di dove avesse abitato in quei lunghi dieci anni, ma quel desiderio, fu il primo che le esaudimmo.
Da allora, non c’è stato un singolo giorno in cui non abbia meditato su ciò che di bello la vita ha riservato a me e alla mia famiglia. E mentre oggi quella bambina diventata donna sta dicendo sì al suo sposo, non riesco a trattenere le lacrime. Sono felice per ciò che è diventata, per le gioie che ci ha dato e che continua a darci. Il suo esile pancino sta piano piano crescendo. Adesso, dentro di lei un piccolo cuore sta battendo. Quando me lo ha detto, le brillavano gli occhi, ma sentivo che dentro di lei cresceva già un’apprensione, paura che qualcosa di brutto potesse succedere a suo figlio. Allora io la strinsi forte a me, poi mi feci forza e dissi: “Non sarà una campana di vetro a rendere immune tuo figlio. Quel giorno che ti portarono via da me e tuo padre, eravamo appena tornate dal supermercato. I posti affollati non mi sono mai piaciuti; ti tenevo stretta a me. Eppure, qualcuno ti ha portato via dal posto che io ritenevo più sicuro al mondo.” Forse le mie parole non l’avevano tranquillizzata, ma Sofia aveva imparato a lottare fin da piccola e a non accettare quella brusca deviazione che aveva preso la sua vita. Quella sera, mentre si preparava per uscire, nel salutarmi disse: “Grazie mamma. Col tuo esempio, diventerò anch’io una buona madre.” “No” dissi: “Tu, sarai migliore di me.”
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