Febbraio non è un mese che amo particolarmente.
Anche quando ero piccola e mia madre mi vestiva in maschera, io non riuscivo a immergermi in quell’atmosfera di grida gioiose, di colori e stelle filanti. Negli anni, ho capito che cos’era quel malumore che mi prendeva e che tanto disturbava mia madre. Ricordo ancora quei suoi occhi puntati sui miei, quello sguardo di disapprovazione e forse, anche di compatimento.
Con stizza diceva: “Ma insomma Angelica. Possibile che tu non riesca a essere come tutti gli altri bambini? Non ti piace questa festa, non hai avuto un minimo di apprezzamento per l’abito che ti ho comprato, e in più hai paura dei carri allegorici! Ma si può avere una figlia così?” Io rimanevo in silenzio. Dall’alto dei miei sette o otto anni, la mia bocca rimaneva muta. Eppure ne avrei avute cose da dire, una su tutte: odiavo il carnevale, semplicemente lo odiavo.
Avrei anche potuto fare un bell’elenco di cose che non mi andavano giù, ma ciò che non riuscivo a capire era quel dovermi adattare a essere allegra per forza, quando io non lo ero. Pensavo a mio padre e alla sua nuova famiglia. Ma anche questo non era del tutto vero perché quando lui era ancora con noi e mi teneva per mano mentre passavano i carri, io non vedevo l’ora di tornare a casa. E allora, forse la mia é solo una sindrome, una di quelle nuove malattie che hanno nomi strani.
Avrei potuto chiamarla io semplicemente con il suo nome: sindrome del carnevale, che comprendeva tutto il suo insieme.
Ma febbraio non è solo carnevale, è anche San Valentino, quella festa che, come il carnevale, bisogna festeggiare per forza, perché se non lo fai, significa che sei sola. Niente Baci Perugina, niente fiori, niente Ti Amo detto mentre lui ti guarda con ammirazione, ti prende con dolcezza la mano e ti infila al polso quel bracciale che tanto volevi. Niente di tutto questo è mai successo a me, e non mi manca affatto. Lo so, so di essere quel bastian contrario a cui mia madre non si è mai rassegnata. E infatti, puntualmente arriva la sua telefonata a risvegliare in me irritazione e sgarbatezza. Questa volta, complice una settimana infernale al lavoro, ho sbottato dicendo: “Forse tu mamma a volte tendi a dimenticare le cose, per esempio che io e Giacomo ci siamo lasciati esattamente un anno fa. O era forse il tuo, un velato desiderio di ricordarmelo?” Ammetto di essere stata rude con lei, ma quella frase buttata là come se non sapessi che il quattordici febbraio è alle porte, è stato troppo anche per me, così con sarcasmo chiedo: “E tu mamma? Con chi lo festeggi il tuo San Valentino? Facendo zapping tra i vari canali immagino, o c’è un lui stavolta?”
Questo scatena un nuovo battibecco tra noi, uno dei tanti. Io e lei non abbiamo mai legato. In me aveva riposto aspettative troppo alte che io non ho mai raggiunto. Ci siamo sempre tollerate, e non appena ho potuto, me ne sono andata di casa.
E’ triste lo so, ma la vita è anche questa.
Giacomo mi ha lasciato un anno fa, tre giorni prima di San Valentino, non è stata una scelta unanime come ho raccontato a mia madre. E nonostante non ci tenessi a festeggiare la festa degli innamorati, il dover ammettere che lui non mi amava più, è stato avvilente, davvero avvilente. Non sono andata a piangere sulla spalla di mia madre e forse, dico forse, ho sbagliato. A lei Giacomo non era piaciuto molto. Diceva che era troppo pieno di sé. Io lo difendevo sempre, ma stavolta, devo ammettere che mia madre ci aveva azzeccato.
Comunque, ne ho preso atto e girato pagina.
Ma il quattordici è nell’aria. Io lavoro con colleghe che attaccano già a gennaio a pensare al regalo da fare al proprio lui, e siccome non conoscono la mia situazione sentimentale, cercano di coinvolgermi, soprattutto da quando hanno saputo che sono una food blogger. Non che io ne avessi fatto vanto con qualcuno, ma un giorno la mia collega più vecchia, quella ormai prossima alla pensione, disse: “Ragazze, ho deciso che mi aprirò un sito o un blog. Devo tenermi impegnata, e visto che adoro cucinare...”
In quel momento, senza riflettere, avevo detto:
“Se vuoi, ti do qualche dritta, io sono una food blogger” In quel momento era calato il silenzio in ufficio, come se quello che avevo detto, le avesse sconvolte. La situazione era alquanto buffa e irreale. Forse era la prima volta che riuscivo a far zittire quelle quattro colleghe chiacchierone.
Ma da quella volta, passato il primo momento di incredulità, iniziarono a tartassarmi di domande:
Quali piatti preferissi fare, se amavo più il dolce o il salato. “Ma la sfoglia come la fai? Non dirmi che la compri...” C’era quel misto di scetticismo che deriva dal fatto che mi conoscevano come una semplice segretaria poco incline nel valorizzarsi. Una persona che al di fuori dell’ufficio conduceva una vita scialba, di certo poco interessante. Ma poi era nata in loro la curiosità e la voglia di carpire segreti. Questa cosa mi indispettiva.
Una volta, Jessica, l’ultima arrivata nel nostro ufficio, ma da subito ben inserita, era arrivata a dirmi: “Angelica, te lo devo proprio dire, non avrei mai immaginato che ti intendessi tanto di cucina, tu sei sempre così... elegante. Ti vedo più pronta a farti servire al tavolo di un ristorante piuttosto che darti da fare ai fornelli.” E io che non sono conosciuta per essere la diplomazia fatta persona, le risposi con un laconico: “Davvero? Pensa invece che io sono allergica ai ristoranti e ai piatti pronti. Se posso, li evito entrambi.”
Jessica era arrossita, aveva cercato di farfugliare qualcosa, così mi impietosii e aggiunsi: “Sai, ormai abito da sola da molto tempo e mia madre che è una pessima cuoca, non mi ha insegnato niente. Nei primi tempi è stata dura anche per me... ma dovevo pur arrangiarmi in qualche maniera.” Da quella volta Jessica iniziò a seguire le mie ricette online diventando assidua frequentatrice del mio blog. Devo dire che questa è stata una bella soddisfazione per entrambe, credo.
E adesso, sono bloccata al reparto farine del più fornito supermercato della mia città. Io rimarrei qui per ore, come un bambino davanti a nuovi giochi.
Mi piace leggere tutto ciò che concerne quel particolare tipo di farina, lo leggo come se fosse l’incipit di un romanzo dalla copertina accattivante. Sono così assorta in questo mio mondo fantastico, che sobbalzo al suono di una voce maschile che chiede: “Ciao, scusa non volevo spaventarti. Per caso te ne intendi di farine?” Mi ricompongo in fretta evitando di mostrare quell’interesse puramente femminile per la vista di un bell’uomo con un paio d’occhi invidiabilmente verdi. “Direi che sono il mio pane quotidiano” rispondo forse un po’ troppo impulsivamente. “Pane quotidiano” ripete lui come cercando un appiglio su qualcosa che gli sfugge, poi, improvvisamente mi chiede: “Segui anche tu Angelica? La food blogger che tratta particolarmente pane, pizza, torte salate e cose del genere?” Sono esterrefatta. E chi se lo aspettava di incappare in un mio fan? Sto per rispondere quando lui continua: “Ma sai che le somigli un po’? C’è quella foto del profilo in cui le si vede un bel sorriso anche se parziale, visto che è ripresa di lato. A proposito, io sono Fulvio, desideroso di imparare quest’arte meravigliosa: la panificazione, intendo.” Ero rimasta a bocca aperta. Mi ero cacciata in un bel pasticcio praticamente da sola. Dovevo rispondere e decidere in fretta su quale nome dire. Alla fine dico: “Hai notato bene Fulvio, quel sorriso è il mio. Piacere di conoscerti, sono Angelica.”
Se ripenso alla faccia che ha fatto, non posso fare a meno di sorridere. Era incredulo, oserei dire, estasiato di incontrare la donna che si nasconde dietro a “Il mio pane quotidiano” nome che avevo scelto per il mio blog. Non che fosse quello che preferivo, ma dovevo differenziarmi e soprattutto non copiare dagli altri food blogger. Un mare di siti dove perdersi. Ma il blog è davvero il mio pane quotidiano. E’ il posto in cui mi sento veramente a casa e perché no, anche un po’ protagonista. Non posso esimermi allora di dare qualche consiglio a Fulvio su quale farina utilizzare per fare una buona pizza alta, come desidera lui. Penso che la nostra conversazione termini qua, ma Fulvio è di tutt’altro parere, perché mi invita a bere qualcosa al bar che è proprio difronte al supermercato. Sono lusingata e accetto. Così, scegliamo un tavolo appartato e ci sediamo. Nel bar c’è un po’ di confusione, il brusio non mi disturba, è un sottofondo che mi toglie dal mio improvviso imbarazzo per questo inaspettato incontro. Fulvio mi racconta del suo lavoro: “Sono avvocato civilista e da poco ho scoperto che la cucina mi rilassa e mi sta appassionando. Quando qualcosa mi riesce, mi soddisfa quasi più che vincere una causa.”
Fulvio sembra convinto nel dire ciò.
Anch’io gli confesso che il lavoro di segretaria non mi entusiasma come quando elaboro una nuova ricetta per il mio seguito di fan. “Quel seguito include anche me” puntualizza Fulvio. Ed è in quel momento che la mia flemma va a farsi benedire e arrossisco vistosamente. Sento le orecchie in fiamme e lui se ne accorge, ne sono certa, ma ha il buon gusto di far finta di niente.
Invece dice: “Immagino che per la festa di San Valentino tu abbia in mente qualcosa di romantico, magari una pizza fatta a cuore, forse. Ho indovinato?” Il suo sorriso all’improvviso mi disturba. Forse è solo un perditempo e io non me n’ero accorta, colpa di quei suoi ipnotici occhi verdi e di quel sorriso che fino a poco prima non mi disturbava affatto. Così senza mezzi termini sbotto dicendo: “Odio San Valentino e tutto ciò che ne comporta, perciò non farò nessuna ricetta per quel giorno. Lascio volentieri campo libero a tutte quelle colleghe che invece la amano. Si prodigheranno in dolci a tema, pieni di zucchero e dolcezze stomachevoli.”
Fulvio scoppia a ridere, tanto che una signora dal cappellino viola, si gira verso di noi e lo fulmina con lo sguardo. Quando riesce a calmare quella sua improvvisa ilarità, dice: “Scusa Angelica, niente di personale. E’ che ho immaginato tutte quelle dolcezze stomachevoli ingoiate da ignari innamorati, mentre l’impaziente ragazza di turno aspetta un giudizio favorevole per quell’ultima fetta di torta che il giovane non si decide a terminare.”
“Che fervida immaginazione!” apostrofo dubbiosa. Lui rimane in silenzio. Chissà cosa gli passa per la testa. Così, fingendo una certa curiosità chiedo: “E il tuo rapporto con questa festa invece? Al di là del fatto che tu sia fidanzato o meno, naturalmente.”
“Sono accondiscendente per natura” Dopo questa frase che non dice granché, lo osservo, mentre è assorto a giocare con la bustina dello zucchero non ancora aperta. Mi accorgo che la conversazione si è bloccata in un binario morto.
Forse mi dovrei alzare e andarmene, ma poi, dopo alcuni attimi di imbarazzante silenzio, Fulvio alza i suoi bei occhi verdi verso di me e dice: “Se fosse per me abolirei tutte quelle feste che inneggiano soltanto al consumismo e che di concreto hanno davvero poco. In ogni caso, è difficile festeggiare se non hai una persona che ti ama, giusto?” Che devo dire. Annuisco, e come se mi fosse scattata una molla da qualche parte dentro di me, racconto a Fulvio di quel mio amore finito male a tre giorni da San Valentino.
“Non che io amassi in maniera sviscerale questa festa” dico in conclusione del mio racconto “ ma questa cosa si aggiunge al resto” dice Fulvio come se mi avesse letto dentro di me. “Già” dico, sfoderando quel sorrisetto di circostanza che detesto quando lo vedo negli altri.
Perciò, forse perché desidero lasciare quel terreno che sta diventando un po’ troppo intimo, dico: “Solo per deformazione professionale, non certo per farmi i fatti tuoi, come mai eri tanto interessato a trovare la farina giusta per fare la pizza alta?” E per la prima volta, colgo in Fulvio un velo di tristezza. Lo vedo combattuto, forse ho sbagliato a fargli quella domanda, ma non pensavo fosse così impegnativa la risposta.
Ma poi lui parla, e ciò che dice mi spiazza e mi fa vergognare per averlo giudicato male neanche dieci minuti prima. “La pizza è per Silvia, mia nipote, una ragazzina di appena tredici anni. Lei adora la pizza alta, e il quattordici febbraio non è soltanto la festa degli innamorati, è soprattutto il suo compleanno. Ma Silvia non è una ragazzina come tutte le altre, anche se all’apparenza lo può sembrare. Silvia ha un cuore malato e solo un trapianto potrebbe salvarla.” Quelle parole appena pronunciate da Fulvio penetrano nel profondo e arrivano fino al mio cuore. E allora comincio a sentire stilettate.
Sento il rimorso salire su su dal profondo. E mi domando se è davvero necessario trovarsi difronte ai veri drammi per accorgerci che le stupide beghe famigliari siano solo quello: stupide. Ed è forse per questo che comincio a sentire l’impellenza di parlare con mia madre e anche con mio padre. Di togliere quella corazza che mi opprime e di vivere con più leggerezza e qualche risata in più. I miei occhi si sono inumiditi. Penso a Silvia di cui non conosco il viso, ma so che ha un cuore malato che aspetta di essere sostituito. E allora, dico ciò che mi sale da dentro e non me ne pento. “Sarei felice e onorata di collaborare assieme a te per Silvia, per farle assaggiare la miglior pizza alta del mondo. Così,” concludo, “la prossima volta la farai tutta tu.” “E ti inviterò ad assaggiarla” dice Fulvio candidamente. Io non rispondo, ma gli sorrido, che forse sigilla il nostro accordo più di mille parole. Quando io e Fulvio ci salutiamo, sento che ci siamo scambiati molto più che i nostri numeri di telefono. Siamo entrati in quel bar che conoscevamo quasi niente l’uno dell’altro, i nomi, la ricerca della farina giusta, il mio blog... invece Silvia, quella ragazzina di cui so davvero poco, mi ha fatto risvegliare qualcosa dentro di me, ancora inspiegabile. Forse era solo lo spunto che aspettavo per farmi un auto esame.
Quello che so davvero è che quest’anno il mio San Valentino sarà speciale. Niente dolcetti zuccherosi, niente cuoricini rossi con su scritto: “Ti Amo”. Solo il piacere di far felice una ragazzina mentre addenta un morbido e soffice trancio di pizza. E mentre conto i giorni che mancano a questo incontro, non posso far finta di niente. Non posso nascondere al mio cuore i sintomi che sento mentre attendo di rivedere Fulvio. E per una volta, evito di analizzare tutto.
Seguirò invece il consiglio di mia madre a cui ho raccontato il mio incontro con lui e che, con una flemma invidiabile ha detto: “Forse è la volta buona Angelì! Lasciati andare.” Io sorrido e ho voglia di abbracciarla, non glielo dico, è troppo per me, invece sento che mi sto commuovendo e non posso e non voglio esimermi da dirle: “grazie mamma”.
Non siamo abituate a questi momenti intimi, ma ne abbiamo bisogno e lo sappiamo entrambe. Lei non risponde subito, poi capisco dalla sua voce che è commossa anche lei. “Sarà un bellissimo San Valentino” dice, con un pochino di titubanza. A me esce un solo ”Sì” e riattacco. Ma rimango lì sovrappensiero, poi ho un’idea. Le mando un messaggio con su scritto:
“Ti manderò le foto della pizza alta” la sua risposta è immediata: “Lascia stare le foto della pizza, mandami invece un bel primo-piano dei suoi fantastici occhi verdi!” Ed è in quel momento che scoppio a ridere, una risata liberatoria, forse assurda, ma benefica e genuina.
Le mando una faccina allegra, una di quelle emoticon che ci aiutano a far capire il nostro stato d’animo. Anche lei mi risponde subito, è un grande cuore che pulsa. Stavolta i miei occhi si riempiono di lacrime. Penso a Silvia, spero che riesca ad avere un cuore nuovo, ma penso anche a mia madre e alle tante battaglie che negli anni ci siamo fatte a vicenda, a tutte quelle porte sbattute con vigore, alle urla, a quel nostro inveirci addosso. Tutto quel malessere che ci siamo portate dietro per anni, non era altro che la paura di scoprirci fragili, di riuscire a dirci una buona volta: “ti voglio bene”
Così, le invio anch’io un grande cuore che pulsa, pieno d’amore che prima o poi, imparerò a dire.
コメント