E’ un pomeriggio di maggio, e una temperatura mite che definirei perfetta. Sono alla fermata dello scuolabus, e ci sono venuta a piedi. Il mercoledì non ci sono lezioni extra scolastiche per mia figlia. L’attendo con trepidante attesa. Oggi per noi, è un giorno speciale.
Benedetta, a nove anni, sta crescendo, soprattutto in altezza. Assomiglia molto a suo padre, eccetto nei capelli. Quando nacque, mi meravigliai di quella testolina bionda. Colore che non apparteneva a nessuno di noi. Angelo, ha i capelli neri, e anch’io sono sul castano scuro. Venne fuori poi, che la madre di Angelo che purtroppo morì prima che io e lui ci conoscessimo, era bionda. Si chiamava Benedikta in onore della nonna paterna che era tedesca. Per nostra figlia avevamo scelto un nome diverso, ma quando mio marito la prese in braccio in sala parto, e vedendo quella faccina chiara, e quei pochi capelli biondi, dissi: “Chiamiamola Benedetta” in quel momento vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime, e io mi sentii felice come non mai. Il nostro piccolo nucleo famigliare, l’ho sempre considerato un nido dove rifugiarsi. I primi anni, tutto era perfetto. I compleanni, i natali con zio Gino a travestirsi di babbo natale per far felice Benedetta, le vacanze estive in montagna a far provare anche a nostra figlia ciò che per noi era vitale: la vista dall’alto di pendii rocciosi... Le indicavamo le vette che si vedevano, e poi a casa guardavamo le numerose foto scattate. Abbiamo sempre cercato di indirizzarla alle cose belle, ma semplici, e a non deturpare ciò che la natura ci ha donato.
Ma un giorno, Angelo tornò a casa con una notizia che mi sconvolse: “Dovrò andare nella nostra sede centrale in Germania per un po’ di tempo come supervisore in sostituzione di un collega in malattia.” Io ero rimasta in silenzio.
Sapevo che era sciocco da parte mia piagnucolare come una bambina capricciosa, ma lo stesso dissi:
“Possibile che nella ricca Germania non ci sia qualcun altro da inserire, ma hanno bisogno di mandare un italiano per questo?”
Mio marito mi prese dolcemente tra le braccia e mi cullò fino a farmi sentire meglio, poi disse:
“Tesoro, non sei felice per me? Questa è una prova di fiducia nei miei confronti. E inoltre... avrò uno stipendio più alto. Tu potresti anche pensare di lavorare solo di mattina, così saresti a casa nel pomeriggio per quando torna Benedetta da scuola...” Angelo aveva ragione, ma lo stesso, non riuscivo a essere felice.
Comunque, seguii il suo consiglio. Chiesi e ottenni il part-time. A quel tempo, Benedetta era in prima elementare. La casa senza Angelo era vuota. Mi mancavano le nostre discussioni semi serie, sentivo la mancanza perfino dei nostri battibecchi. Io e Benedetta la sera ci rintanavamo in casa vicino a quel finto caminetto che tanto era stato oggetto di discussione. Angelo ne era stato entusiasta, mentre io lo trovavo un ripiego che non generava nessuna atmosfera montana, per usare le parole di Angelo. E intanto, contavamo i giorni per rivederlo. Le telefonate mi facevano battere il cuore come quando eravamo fidanzati e ci si vedeva solo il fine settimana. Ma le conversazioni di allora, non erano uguali a quelle dalla Germania. Sentivo che Angelo era più frettoloso. Ci si diceva le stesse cose: “E Benedetta, come sta? La scuola? Le manco?”
“Certo che le manchi” rispondevo io, e poi dicevo: “Manchi a tutte e due se è per questo”
Quando poi tornava a casa per un po’ di giorni, c’era come un certo assestamento, prima di riprendere il regolare ritmo che aveva lasciato mesi prima, e quando succedeva era ora di ripartire di nuovo. La mia domanda era sempre la stessa: “Per quanto ancora starai lontano da noi?”
Se all’inizio rispondeva con un “Vorrei saperlo anch’io tesoro” che mi rincuorava, col tempo lo vedevo più distante. Si irritava facilmente, diceva:
“Non me lo rendi facile Sandra. Credi che mi piaccia questo andirivieni?” Così i nostri saluti erano più frettolosi, i nostri sguardi meno intensi, e sempre meno connessi.
Iniziai a vivere un periodo fatto di depressione cercando però di nasconderlo a mia figlia. Benedetta doveva crescere serena, nonostante il padre fosse pressoché assente.
Nella telefonata della sera, mi sforzavo di apparire felice per non instillare in Benedetta nessun sospetto. Quel tarlo invece, era cresciuto dentro di me, e mi stava divorando.
C’era una vocina che non mi abbandonava mai. Era quel sesto senso che mi diceva: “qualcosa non va nel tuo matrimonio.” Era un rapporto fatto di lontananza, di frasi di circostanza, di pesantezza, e soprattutto di una mia grande tristezza. Non avevo veri indizi. In realtà c’era soltanto la mia sensazione basata però sul nulla.
Nell’estate dei suoi otto anni, Benedetta aspettava il suo papà per le vacanze estive.
Ma quell’anno, Angelo non venne a casa.
Mi disse che c’erano stati dei problemi in azienda e che lui aveva la responsabilità di risolverli.
Non gli credetti. Sentivo l’odore della bugia attraverso il telefono, nonostante lui sembrasse affranto. Fu da lì che iniziai a fare delle indagini.
Mai in vita mia l’avrei pensato, ma assoldai un investigatore privato. Il mio sogno di una vita semplice accanto a mio marito e a nostra figlia, per me era già infranto. Se la fiducia viene meno, significa che è la fine di tutto. In un certo senso mi sentivo in colpa per aver dubitato di Angelo, ma poi mi dicevo che era stato lui a portarmi a prendere quella decisione. Ma quando dopo un mese arrivò il verdetto con relative prove, mi sentii mancare. Non soltanto Angelo, mio marito e padre di nostra figlia, mi tradiva, ma si era anche ricostruito una famiglia diventando bigamo.
Non ero preparata a una cosa del genere, non credo neanche che sia facile esserlo.
Decisi di non dire niente a mia figlia. A otto anni, si è grandi abbastanza per capire? Non lo sapevo.
L’investigatore mi disse che Angelo aveva fatto un viaggio in America con la nuova compagna e che l’aveva sposata a Las Vegas proprio quell’estate. Fui consigliata di denunciarlo.
“Adesso è lei a decidere” disse l’investigatore.
L’idea di essere io la persona che avrebbe potuto rovinare la reputazione di Angelo, non mi piaceva. Non volevo distruggere la sua vita per semplice ripicca. Quello che desideravo era una sua confessione, un’ammissione di colpevolezza.
Nel mio immaginario, speravo che si ravvedesse, annullasse quel matrimonio farsa, e che tornasse da me e Benedetta. Ma quando si decise a tornare finalmente a casa dopo quasi un anno, e solo perché gli avevo detto al telefono: “Ti conviene tornare quanto prima. Dobbiamo parlare a voce”
Le cose si complicarono. Angelo arrivò nel primo pomeriggio di un venerdì dello scorso anno. Anche allora era maggio, ma il clima era diverso, aveva piovuto e le temperature si erano abbassate di nuovo. La prima cosa che mi chiese fu: “Dov’è Benedetta?” Io dissi che nostra figlia era da un’amichetta. Allora Angelo si alterò. E per la prima volta, non riconoscevo più l’uomo che avevo sposato. Mi sentivo indifesa e per un attimo, ebbi paura di lui. Ma poi cercai di calmarmi. Dissi, cercando di controllare le mie emozioni: “Niente di personale Angelo. Nonostante io ti abbia amato molto, oggi non so più chi sei. Ho saputo di Linda e della tua relazione con lei. Non nego di aver sofferto molto, di essere caduta in depressione, ma non ho fatto autolesionismo. Non sono diventata un’alcolizzata, o preda di altre sostanze dannose.
Ho una figlia da accudire. Una figlia che ci disegna ancora tutti e tre come una famiglia unita e felice. Questo significa che non le ho mai parlato male di te, e non le ho mai raccontato le mie ansie e preoccupazioni. Alla fine, non avrei mai detto di essere grata a questo tuo trasferimento, altrimenti non avrei, forse mai conosciuto la tua vera natura Angelo.”
Il suo viso era rosso di rabbia, ma si teneva a debita distanza. Dopo un po’ disse: “Bene mia cara. Allora devi sapere che ho chiesto io di mandarmi nella sede tedesca. La donna che amo era venuta nella nostra sede italiana. E’ da allora che ci amiamo. Abbiamo anche un figlio. Forse la tua fonte non te l’ha detto...”
Ogni parola era stata una pugnalata al mio cuore già provato, ma non cedetti al pianto. Piuttosto dissi: “Sei bigamo, allora. Come la mettiamo con le nostre faccende legali?” In quel momento gli spuntò un sorriso che definii diabolico, e pensai che non invidiavo affatto la sua nuova moglie.
Con un gesto teatrale, gli porsi dei fogli. Dissi:
“Ecco perché avevo bisogno di vederti in presenza. Devi apporre delle firme. Avrei potuto denunciarti, ma non ho voluto farlo. Ti chiedo di uscire dalla mia vita e da quella di Benedetta in maniera civile.” In quel momento qualcosa scattò dentro di lui perché si mise a piangere. Farfugliò cose incomprensibili. Poi, si rianimò. Iniziò a spingermi e dirmi che io non potevo togliergli sua figlia, che l’avrebbe portata con sé. Fu in quel momento che lo colpii. Lui barcollò e io in quel frangente uscii a cercare aiuto. La mia vicina chiamò i carabinieri e fummo sentiti entrambi.
“Non volevo che le cose andassero così” ripetevo tra i singhiozzi. Alla fine, non sporsi denuncia.
Lui firmò le carte della separazione e poi del divorzio. Andai incontro a un periodo pesante. Il momento peggiore fu il dover informare Benedetta di come stavano adesso le cose. I suoi pianti mi straziavano, ma non mi ha mai accusato di qualche colpa. Avevo paura che strappasse i disegni che erano ancora appesi sul muro della sua cameretta, dove si vedeva noi tre felici in montagna o al mare. Desideravo che lei non rimuovesse quel periodo, perché per qualche tempo, fu davvero bello.
Oggi Angelo è un capitolo chiuso per me. Benedetta qualche volta lo sente, ma capisco che è a disagio. A ognuno i propri tempi.
Mia figlia, coi suoi nove anni, è ancora una bambina. I suoi sogni forse adesso sono meno certi di un tempo. Ma qualcosa sta cambiando.
E’ entrato, senza fare tanto rumore, un vero angelo nelle nostre vite. E oggi pomeriggio io e Benedetta andremo a trovarlo. Ha una casetta graziosa non molto lontano da casa nostra.
Ed eccolo finalmente il piccolo autobus giallo della scuola. Quando Benedetta scende mi butta le braccia al collo. So che non sarà ancora per molto, perché tra uno o due anni, inizierà a sentirsi più grande e più indipendente. Ma per ora me le prendo tutte le sue attenzioni. Mi guarda raggiante e dice: “Allora, andiamo a casa di Luigi?” Io le sorrido, e vedo che i suoi occhi brillano. “Sì” dico, con un po’ di commozione.
“Andiamo da Luigi che ci sta aspettando col tiramisù” Dopo molto tempo, in cui i nostri passi erano pesanti e instabili, adesso camminiamo leggere io e Benedetta. A questo mondo, nulla è definitivo, ma non ho ancora smesso di sperare in qualcosa di buono, per me e per lei.
Luigi è arrivato in un momento nero della mia vita. Fa il pediatra. Quando non sapevo come fare con mia figlia, lui mi ha ascoltato.
Mi ha teso la mano, e come qualcuno che annaspa in un mare scuro e profondo, in quella mano ho visto la salvezza, e l’ho afferrata.
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