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La macchia rossa




La temperatura era piacevole in quel pomeriggio di inizio autunno. Immaginai di trovarmi a camminare in un lungo viale alberato mentre i miei piedi calpestavano un soffice tappeto di foglie che, durante la stagione estiva, avevano provveduto a ombreggiare quella via. Ne percepivo la morbidezza e ne sentivo il beneficio. Mi riscossi da quella visione, disturbata dalla voce maschile che, dall’altoparlante annunciava l’arrivo a breve, del mio treno. Quanti minuti erano passati da quel mio sogno a occhi aperti? Non ne ero certa. Il binario sulla quale mi trovavo si era riempito di gente, chiacchiericci in lingue diverse. Storie che non conoscevo, persone che probabilmente non avrebbero mai influito nella mia vita, incontri occasionali fatti di sguardi, nient’altro che sguardi. Erano occhi in attesa, esattamente come i miei. Tutti noi aspettavamo che quel treno arrivasse, era necessario che rispettasse i tempi per, forse, prendere altre coincidenze. Stavo facendo questo tipo di congetture quando lo notai. Si vedeva che aveva corso, lo si capiva da tante cose: i capelli arruffati, la giacca sgualcita, il rossore del suo viso… La sua espressione, dapprima preoccupata, andò via via rasserenandosi, avendo constatato che il treno non era ancora arrivato. Aveva un nonsoché di buffo che mi fece sorridere. Poteva avere trent’anni come quaranta. Era uno di quei visi che nascondono, senza volerlo, la propria età. Un eterno bambino intrappolato in un corpo da adulto. Era questo che mi faceva pensare guardando quella percettibile macchia rossa difficile da nascondere sopra una maglietta blu. E come se il tempo avesse fatto un balzo all’indietro di una ventina d’anni, risentii come per incanto, la voce sgraziata di zia Filomena che diceva: “Bisogna trattarli bene i nostri capi d’abbigliamento perché devono accompagnarci per tanti anni”. Noi bambini temevamo sempre il suo sguardo severo, soprattutto a tavola. E quando succedeva che qualcuno si sporcasse, il rimprovero non mancava mai.

Povera zia Filomena! Immaginai il suo sguardo di disapprovazione se fosse stata lì con me. Non ci sarebbe stata empatia in lei, solo indignazione e nessuna giustificazione per quel giovane, reo di aver indossato una maglia macchiata, facendosi vedere altresì, in mezzo alla gente. Non c’erano attenuanti, emergenze impellenti da poter scusare un comportamento simile.

Crescendo, avevo capito che zia Filomena si trincerava dietro un’immagine di pulizia che non aveva niente di bello. Era stata una giovane vedova di guerra che non aveva più voluto sposarsi. Nonna Ida, sua sorella, l’aveva presa in casa con sé quando era andata in pensione. E quando qualche anno dopo era morto nonno Angelo, le due sorelle impararono a prendere decisioni importanti insieme, decisioni di cui prima si occupava il nonno. “Filomena è una benedizione!” soleva spesso dire la nonna, soprattutto quando noi bambini ci lamentavamo del suo carattere burbero e di quelle fisse sugli abiti. Nonna Ida la chiamava “deformazione professionale”. “Filomena ha lavorato per tutta la sua vita in una lavanderia. Lei ci conviveva con le macchie più o meno ostinate” diceva la nonna. E ancora: “E’ normale che lei osservi certe cose…” Comunque, io segretamente rimpiangevo l’atmosfera che regnava in quella casa prima che Filomena vi si trasferisse, quando nonna Ida e nonno Angelo, ci accoglievano senza dare troppa importanza all’esteriorità, quando ci si poteva sporcare di terra e giocare all’aria aperta. C’era più spontaneità e si rideva di più assieme a nonno Angelo. La tristezza mi assale pensando che alla fine, ciò che mi rimane di un mondo che non c’è più, sono i ricordi che giacciono silenziosi dentro di me. E’ stato un periodo formativo della mia giovane esistenza, quando tutto era facile, senza preoccupazioni per un domani che mi stava aprendo le braccia per accogliermi senza paura. Ma la morte di nonno Angelo ha sconvolto il mio essere più di quanto non avessi capito a quel tempo. Ero una bambina di dodici anni. Era iniziato il periodo delle prime cotte e delle risatine soffocate mentre entrava in classe il prof di musica, quello bello che piaceva a tutte. Così, avevo sofferto un po’ per quella perdita, ma poi, la domenica successiva, ero stata invitata a un compleanno e mia madre aveva detto: “Ma sì, vai pure Carlotta” Il nonno era morto e io l’avevo già dimenticato. Ma non era così. Ricordo perfettamente la prima volta che tornai a trovare la nonna e mi fermai a pranzare da lei. Filomena, quella zia ingombrante buona solo a dettar regole, si era seduta al posto del nonno. Era stato in quel momento che avevo percepito chiaramente la sua assenza. L’invadenza di zia Filomena nel voler fare le veci del nonno, mi aveva procurato un dolore sordo e la voglia di piangere per un uomo giusto e buono che ci aveva lasciato. Quello di Filomena, mi era parso un sopruso. Una prepotenza che non aveva nulla a che spartire con la forza umana, ma disegnava chiaramente uno scenario per il tempo a venire. Nonna Ida era stata relegata a subalterno mentre Filomena, quella sorella maggiore di lei di pochi anni, aveva preso il comando. La sua era la forza vincente della persuasione, delle cose che dovevano essere fatte in un certo modo, che era meglio cambiare regime anche con noi ragazzini. A farne le spese erano stati i più piccoli: Matteo e Luca: i miei fratellini gemelli che a quel tempo avevano otto anni. Adesso mi viene quasi da sorridere pensando che dopotutto, i miei fratelli ne sono usciti indenni da quei pranzi interminabili e pieni di regole a cui assistevano.

Il fischio del treno mi fece sussultare. Mentre mi avviavo assieme agli altri passeggeri, il bel giovane con la maglietta blu e la vistosa macchia rossa era scomparso alla mia vista.

Salii sul treno e mi accomodai. Il mio orologio mi confermava che sarei riuscita ad arrivare in tempo per assistere alla prima presentazione del romanzo d’esordio della mia amica Agata. “Non mancherei per nessun motivo al mondo” le avevo detto quando mi aveva chiamato gioiosa e quasi incredula per il successo che stava riscuotendo il suo libro.

Mi rilassai sul sedile e chiusi gli occhi. Attorno a me potevo percepire quel brusio che non mi disturbava. Erano vite che si raccontavano storie: forse ricordi dal passato come quelli che mi avevano travolto poco prima, o magari chissà… Sentii un signore dire: “Ma che piacere sentirti. No, non disturbi, sono in treno”. Sorrisi, pensando a quante volte una telefonata inattesa può rallegrare il cuore e trasformare una giornata grigia in qualcosa di più piacevole. Riuscendo a farci vedere il sole anche se è nascosto tra le nuvole.

“Speriamo che il treno arrivi in orario” Aprii gli occhi frastornata. Avevo sognato? O quella voce maschile che avevo sentito era reale? Il ragazzo dalla maglietta blu e la macchia rossa, era lì, seduto difronte a me. Non ricordavo di averlo visto quando avevo preso posto. Mi era bastato chiudere gli occhi ed estraniandomi da tutto. Le voci che avevo sentito in sottofondo erano state una garanzia, ma ciò che accadeva davvero in tempo reale, mi era sfuggito. “Non saprei” dissi, cercando di sembrare distaccata. Da vicino, quel giovane era ancora più bello. Ne potevo ammirare gli occhi, di un grigio che mi facevano pensare a due perle. Sentii che stavo arrossendo, così, solo per parlare, gli chiesi se avesse un appuntamento ben preciso e quando rispose, rimasi spiazzata: “Mia cugina oggi presenta il suo primo libro, le faccio una sorpresa. Sai… ha scommesso con me che non ci sarei mai andato, o che sarei arrivato in ritardo”. “In questo caso, arriverei tardi anch’io” dissi sorridendo. Era buffa la sua espressione perplessa, così gli raccontai che Agata era la mia migliore amica e che anch’io stavo andando alla sua presentazione.

Il tempo che rimaneva, lo passammo chiacchierando, raccontandoci cose che forse entrambi, avremmo dimenticato l’indomani. E mentre il treno correva via veloce saltando di fermarsi in piccole stazioncine di paesi sconosciuti, quella macchia rossa si faceva via via sempre più piccola fino a scomparire. Il grigio dei suoi occhi, raccontava molto di più di una semplice imperfezione che sarebbe andata via con un semplice lavaggio.

Quando scendemmo dal treno e assieme ci incamminammo verso la libreria, lui, quel giovane con cui avevo parlato amabilmente per una buona mezzora, si fermò di scatto e disse: “Che sbadato, non mi sono ancora presentato: sono Angelo, piacere di conoscerti…” “Carlotta” risposi, sbalordita, sperando che lui non se ne accorgesse. Invece se n’era accorto, perché chiese: “Trovi il mio nome un po’ desueto?” “Forse” risposi “ma non è questo. Era il nome di mio nonno”

Mi fermai di nuovo. Avevo il cuore in gola. L’emozione mi stava giocando un brutto scherzo. Feci un bel respiro e cercai di calmarmi. I suoi occhi mi scrutavano preoccupati e io mi sentii un po’ stupida, ma poi, i battiti del mio cuore erano tornati regolari.

Gli sorrisi e dissi: “Sarà solo una coincidenza, ma… pensavo a lui mentre aspettavo il treno”.

Non gli raccontai della sua maglietta macchiata di rosso e dell’associazione di idee che avevo fatto e delle emozioni che mi aveva procurato ripensando al passato.

Angelo non mi chiese niente, ma allungò la sua mano e la mise dentro la mia. Un gesto spontaneo e bello nella sua semplicità.

Poi disse: “Vieni, facciamo questa bella sorpresa ad Agata”.

Non replicai, non avrei saputo cosa dire. Lo seguii e basta.


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