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La casa dei buganvillee


Si stava avvicinando a grandi passi il momento della partenza. Era giunta la fine di mesi di permanenza in solitaria nella casa della mia infanzia, la casa dei buganvillee come molti la chiamavano un tempo. Quei meravigliosi fiori rosa che si arrampicavano su sul pergolato erano stati la passione di zia Giulia oltre che il suo orgoglio. Negli anni, dopo alcuni lavori di ristrutturazione, la pianta, era stata sostituita con dell’edera che, seppur bella, non aveva fatto lo stesso effetto dei fiori rosa. Nonna Ada però ne era rimasta soddisfatta. Soleva dire che così le persone tiravano dritto e non si fermavano in contemplazione come se non avessero mai visto dei fiori. All’interno della casa invece tutto era rimasto intatto. E in quei mesi quei mobili antichi, silenziosamente, mi hanno parlato del passato, dando un senso di stabilità alla mia traballante esistenza.

Ero bambina quando li osservavo dal basso della mia statura. Mi sembravano immensi e austeri. Nonna Ada si raccomandava che noi bambini non ci appoggiassimo le mani. Era meticolosa nonna Ada. Meticolosa e poco incline al sorriso. Zia Giulia invece, ci riuniva sempre davanti al caminetto acceso per raccontarci favole straordinarie. Alla fine diceva: “Se non mi credete allora non vi dirò più niente” Lo faceva perché si divertiva a vedere le nostre facce tristi. Infatti, puntualmente diceva: “Ci siete cascati anche stavolta!” Ci teneva poi a sottolineare che le sue non erano storie inventate, ma vita vissuta. Così, la immaginavamo mentre navigava in mare aperto o al galoppo su un cavallo bianco. Io mi chiedevo spesso se invece zia Giulia non fosse altro che una brava e simpatica imbrogliona. Negli anni, crescendo, intuii che zia Giulia era invece molto sola. Tra lei e la nonna spesso sorgevano divergenze. Con noi bambini si limitavano a ignorarsi, ma capitava di sentirle discutere attraverso le porte chiuse delle nostre stanze. Io e i miei cugini ci guardavamo sperando che quelle voci alterate cessassero. Zia Giulia ogni tanto se ne andava. Fu alla partenza per uno di quei suoi strani viaggi che nonna Ada disse: “Incredibile, lui chiama e lei risponde a comando”. Zia Giulia ci salutò a uno a uno e quando si avvicinò a me, vidi che i suoi occhi erano rossi e gonfi di pianto. Non sapevo nulla della sua vita privata, ma se dovevo parteggiare per qualcuno, be’… quel qualcuno era lei. Morì che io ero ormai adolescente. Quando lo seppi ne rimasi sconvolta e incapace di accettarlo. Per me zia Giulia era ancora lontano in uno di quei suoi viaggi affascinanti. E, nonostante avessi smesso da un pezzo di ascoltare le sue favole, le rimpiansi tutte. Rivivevo quei momenti dentro di me e risentivo la sua voce che raccontava dando vita a immagini e colori. Aveva contratto una malattia mentre si trovava in Africa. Fu una disgrazia enorme. La nonna si vestì di nero e non lo abbandonò più per il resto dei suoi giorni. Nonostante questo lutto così evidente, detestavo la sua ipocrisia. Ricordavo come trattava la zia mentre era in vita e quel nero per me era solo una finzione. Un giorno non resistetti e con le lacrime agli occhi dissi: “Anche se io non porto il lutto, a me la zia manca davvero, a differenza tua nonna che hai già donato tutti i suoi abiti e hai nascosto tutte le sue foto”. Lo schiaffo che mi arrivò fu così violento che barcollai all’indietro. La nonna non mi rivolse più la parola finché un giorno disse: “Tu credi di sapere tutto vero? Be’… non è così”. Io non risposi, ma da quella volta, gradualmente, ci riavvicinammo. Zia Giulia era solo nei miei pensieri, non dissi più nulla e non chiesi mai niente nemmeno a mio padre che ne era il fratello. Mia madre era un’attrice di teatro e mio padre il coreografo dei suoi spettacoli. Anche per lui nonna Ada aveva parole poco gentili, lo chiamava il giramondo in mia presenza, ma sapevo che era solo un modo meno odioso di chiamarlo. Per non menzionare mia madre. “Ah! Quella lì l’ha rovinato del tutto!” diceva nonna senza mai menzionare il nome di mia madre. Sicché, spesso mi trovavo sola con lei. Il nonno era stato un avvocato che aveva lasciato la nonna vedova molto presto, ma anche senza problemi economici. Si risposò una seconda volta, ma le cose non andarono bene tanto che la nonna costrinse quel poveruomo a chiedere il divorzio senza dover pretendere niente da lei. Ma queste cose le seppi dopo anni, quando ormai la nonna non c’era più. Un giorno mia madre mi fece una strana domanda. Mi chiese se per caso non avessi trovato delle lettere che lei aveva indirizzato a mio padre ai tempi del loro fidanzamento. Le avevo risposto che no, non avevo mai visto alcuna lettera. Mia madre mi era sembrata perplessa. Mi raccontò allora che mio padre, durante il primo periodo del loro fidanzamento, le scriveva lunghe lettere d’amore a cui lei rispondeva regolarmente, ma, stranamente, quelle lettere non arrivavano mai al destinatario. Così, un giorno, mio padre diede un nuovo indirizzo a mia madre a cui inviare le sue lettere. Fu così chiaro allora, che qualcuno li stava silenziosamente ostacolando perché, al nuovo indirizzo, le risposte di mia madre arrivavano puntuali. Ne era seguita una grossa discussione tra mio padre e la nonna. Quest’ultima si era sentita offesa per aver messo in dubbio la sua parola. “Sta di fatto” insistette mia madre, “che un fascio di missive indirizzate a tuo padre, lui non le ha mai lette. Quella strega sarebbe stata felice se io e suo figlio ci fossimo lasciati, ma non fu così che andò per fortuna”. Ero incredula. Sebbene nonna Ada avesse avuto un caratteraccio, non avrei mai immaginato che fosse stata capace di arrivare a tanto. Comunque, quella fu la molla che mi spinse a cercare le lettere di mia madre. Ero sicura che la risposta fosse dentro a qualche cassetto di quel mobilio antico e austero. Cercai per giorni senza nessun risultato. Poi, mi ricordai di un vecchio baule che giaceva dimenticato in soffitta. Non amavo molto quel posto che trovavo buio e dal forte odore di muffa, ma non potevo esimermi dal controllare anche lì. Quando, non senza fatica sollevai il coperchio di quel baule, vi trovai delle lenzuola ricamate che forse erano appartenute alla famiglia di nonna Ada. Il loro odore acre mi pizzicava in gola. Aprii il lucernaio per far cambiare l’aria alla stanza e iniziai a tirar fuori le lenzuola. Senza volerlo mi soffermai a guardarle con più attenzione. Presi in mano una federa. Il cotone era ancora in ottimo stato anche se un po’ ingiallito. Ai lati della federa c’erano ricamati dei piccoli angeli. Poi, osservando meglio, notai un nome di donna ricamato; quel nome non era Ada, bensì Luisa. Non avevo appigli per poter risalire all’identità di quella ricamatrice e non avevo idea del perché mia nonna fosse in possesso di quella biancheria. Di certo c’era che in tanti anni non avevo mai visto quelle lenzuola sopra il letto di mia nonna. Avrebbe potuto essere la madre di Ada, o un’altra parente. Con quei pensieri in testa, tirai fuori tutto il corredo e alcuni asciugamani. E proprio sotto quest’ultimi, ben nascosto c’era un fascio di lettere. Quel giorno chiamai mia madre tutta eccitata per darle la notizia.

Per tutta risposta lei scoppiò a piangere e tra i singhiozzi disse: “Avrei tanto voluto essermi sbagliata sul suo conto”… Mamma mi raggiunse qualche giorno dopo e quando le feci vedere le lettere, sgranando gli occhi disse: “Ma queste non sono mie!” Per discrezione non avevo nemmeno guardato il mittente immaginando che quelle fossero le lettere di mia madre. “Queste” proseguì lei, “sono le lettere scritte da Pietro a Giulia che evidentemente Ada nascondeva”

Ero sconvolta. Zia Giulia, benché gli anni fossero passati, mi mancava ancora molto. La sua fine, assurda e ingiusta non aveva acquietato il mio animo. Io e mamma, unite in questo dolore, iniziammo a leggere.

Scoprii così che l’amore segreto di zia Giulia, si chiamava Pietro. Era un archeologo, nonché un marito e un padre. Ogni lettera che Pietro scriveva a Giulia, era una accorata dichiarazione d’amore. Un amore impossibile, un amore fatto solo di pochi attimi di felicità. Il figlio di Pietro, lo legava indissolubilmente a una moglie che non gli avrebbe mai concesso il divorzio. “Sapevo che il bambino era malato” disse mia madre “come pure Giulia sapeva che Ada le nascondeva le lettere di Pietro anche se lei ha sempre negato”. In quel momento a mia madre squillò il cellulare. Ricordo che, dopo aver risposto disse: “Ah se ci fossero stati questi a quel tempo!”

Quando mia madre se ne andò, presi una di quelle lettere a caso e lessi:


“Carissima Giulia, oggi Paolo stava un po’ meglio e l’ho portato al mare. Ma com’è triste la vita senza sentire il suono della tua voce…

Sei davvero certa di voler andare in Africa? Prima che tu possa partire, vorrei vederti un’ultima volta. Abitiamo così vicini, ma siamo così lontani… Come avrei voluto che le cose fossero diverse tra me e te. Davvero l’amore non dovrebbe essere un ostacolo nemmeno per due come noi: cugini di primo grado

tuo Pietro”


Mi chiedevo come fosse stato possibile un loro rapporto se nonna Ada nascondeva tutte le lettere di Pietro. La risposta la ricevetti un giorno inaspettatamente da mio padre.

Gli chiesi di raccontarmi del rapporto d’amore che c’era tra zia Giulia e Pietro.

Mio padre si fece scuro in volto. Potevo leggere nei suoi occhi un velo di tristezza. Sembrava indeciso, come se non volesse rivangare un passato fatto di litigi e incomprensioni. Alla fine disse: “Pietro è nostro parente, mio cugino di primo grado. Io, lui e Giulia siamo cresciuti assieme. Eravamo inseparabili; tre bimbi felici e spensierati. Poi, verso l’adolescenza, cominciai a intuire che tra Pietro e Giulia c’era qualcosa che stava nascendo. Troppe volte mi lasciavano in disparte. Dicevano che io ero ancora piccolo per fare questo o quello. Capirai… avevo solo due anni in meno di loro. Comunque, la cosa fu evidente quando un giorno li sorpresi mentre si baciavano. Confesso che la scena mi sconvolse. Cercai di dividerli dicendo che l’avrei raccontato ai nostri genitori. Fu allora che Pietro mi intimò di non farlo. Mi disse: “Io e Giulia ci amiamo, non ci importa niente se siamo cugini”. Io non parlai, ma lo fecero altri al posto mio. Giulia si arrabbiò tantissimo con me e a niente servì giurare che io non avevo fatto la spia. Ormai la frittata era fatta. Nella mia ingenuità, speravo che le cose si appianassero e che Giulia e Pietro si fidanzassero. Ma mi sbagliavo. Le due famiglie resero loro la vita così impossibile che i due ragazzi dovettero lasciarsi, almeno in apparenza, perché io da allora li aiutai a vedersi in maniera clandestina. Divenni il loro tramite, portavo le notizie di Pietro a Giulia e viceversa. Andò avanti così per un anno, forse due. Poi, successe che Pietro andò a studiare lontano. Ci rimase cinque anni. Non so come successe, ma il padre gli fece conoscere Sofia, una ragazza bielorussa che nel giro di poco tempo, forse sei mesi, lo convinse a sposarla. Voci di corridoio dicevano che Sofia fosse stata pagata dal padre di Pietro per concludere l’affare del matrimonio, come se fosse stato un compito ben preciso. La donna rimase incinta e quando lo disse a Pietro, lui capì di essere stato raggirato. Disgrazia volle che il bambino nascesse con una malattia rara cosa che rese la convivenza tra Pietro e Sofia ancor più difficile. L’unico sfogo erano gli incontri clandestini con Giulia. Era sempre grazie a me se loro due potevano vedersi ogni tanto. Ciò che non sapevo è che Pietro sentisse il bisogno di scrivere a Giulia, forse quando veniva preso dallo sconforto o per sentirla più vicina a lui. Purtroppo, mia madre riusciva sempre a intercettare la posta prima di tutti noi e nascondeva le missive. Non so perché lo facesse. Era come se avesse disimparato ad amare. Qualcosa si era spezzato dentro di lei da quando…” Mio padre si bloccò di colpo, come se si fosse accorto di aver parlato troppo. Fu in quel momento che mi tornarono in mente le lenzuola trovate sul baule e quel nome: Luisa ricamato su quella biancheria che sembrava essere stata dimenticata o nascosta per anni. Come se fosse qualcosa che era meglio non vedere. Così gli chiesi se avesse mai sentito parlare di una certa Luisa. Mio padre sospirò. Era ancora un bell’uomo, ma aveva lo sguardo pensieroso. Dopo un po’disse: Tua nonna aveva una sorella gemella: Luisa appunto. Erano due gocce d’acqua e si volevano un gran bene. Tua nonna cambiò radicalmente dopo che Luisa morì di tifo. Io e zia Giulia eravamo piccoli. Mamma prese una tata per noi perché erano più i suoi momenti negativi che quelli buoni. Solo quando papà morì si riscosse un pochino, ma il suo spirito si era inaridito e non si riprese più. Appena potei, lasciai questa casa, così fece anche Giulia, ahimè, a lei toccò un destino più crudele. Nonostante la perdita della sorella, non ho mai perdonato mia madre per averci chiuso tutti fuori dalla sua vita e dal suo dolore”. Dopo che mio padre smise di parlare, gli buttai le braccia al collo e lo abbracciai stretto. Fino ai primi anni dell’adolescenza ci eravamo visti poco. Sia lui che mamma erano spesso in tournée, ma quando tornavano, non li sentivo estranei. Ero felice di rivederli e sentivo che loro provavano il mio stesso sentimento. Io mi intrufolai nel loro mondo diventando costumista. Imparai a vivere il teatro dal di dentro pur non facendone veramente parte.

Usufruivo spesso della casa di nonna Ada perché la vicinanza col mare e le colline non lontane, mi aiutavano nelle mie ispirazioni. Erano soggiorni brevi in cui difficilmente mi imbattevo in qualcuno. Ma gli ultimi tre mesi sono stati diversi per me perché non ero qui per lavorare. Un giorno venne a trovarmi Giulio, il figlio di Pietro. Il ragazzo sembrava il ritratto della salute, inoltre non mi capacitavo con la cronologia che riguardava la sua nascita. Giulio mi portò due melograni. Disse: “Ti ho vista qui tutta sola e allora ho pensato di farti visita come da buon vicino”.

Visti i trascorsi tra suo padre e zia Giulia, mi sentivo stranamente a disagio con lui. Lo ringraziai ma riconosco che non fui per niente ospitale. Lui non si trattenne, ma quando se ne andò, mi sorrise.

In seguito, lo vidi spesso lungo la spiaggia. Era sempre solo. Lo trovavo alquanto enigmatico, nonché parecchio attraente. Solo una volta lo vidi in compagnia di un uomo dal fisico asciutto che gli camminava accanto. Feci di tutto per evitarlo, ma Giulio mi vide e, a passi svelti, mi raggiunse. Poco dopo, arrivò il suo accompagnatore. Con disinvoltura l’uomo disse: “E questa graziosa signorina chi è?” Ma nell’osservarmi, il suo sguardo si incupì, poi disse: “Sei Cecilia vero? Hai gli occhi di tua zia. Te l’avranno detto in tanti immagino…”

Giulio intervenne dicendo: “Conosci la sua famiglia papà?” Dunque, era lui Pietro. Nonostante la parentela e la vicinanza, nonna Ada aveva tagliato i ponti con la famiglia di Giulio. La casa di nonna poi, era rimasta chiusa per alcuni anni dopo la sua morte.

Quell’uomo che mi stava difronte, era l’antico amore di zia Giulia. Ma non capivo perché fossero state inventate tante assurdità a quel tempo, come la nascita di un figlio disabile da parte di Pietro. Alla fine cercai di essere cortese, ma forse Pietro aveva letto dietro ai miei occhi perché ad un tratto disse: ”Sai Giulio, una volta io e la zia di Cecilia, eravamo molto amici… oltre che cugini: io e Giulia…”

Nel sentire quel nome, Giulio ebbe una reazione. Percepivo della perplessità nel suo sguardo e un certo desiderio di sapere. Era forse una coincidenza quel nome uguale a quello della cugina del padre? Quello avrebbe potuto essere un buon momento per confidarsi, ma Pietro decise di non farlo. Invece disse: “Tuo fratello Paolo la conobbe…” in quel momento calò un silenzio pesante da cui avrei voluto scappare. Invece chiesi: “lei ha due figli allora…”

Pietro si strinse nelle spalle e i suoi occhi persero per un po’ della loro lucentezza. Poi, quasi in un sussurro disse: “Ma tu non sai niente immagino”. Feci no con la testa, cosa che fece anche lui. Dopo un po’, con voce rauca dall’emozione disse: “Si dice sempre che non è giusto prendersela con i morti, ma tua nonna non era una bella persona in vita. Ha fatto di tutto affinché io e Giulia restassimo divisi. Anche mio padre a quel tempo ci mise del suo facendomi incontrare Sofia da cui nacque Paolo. Io e Sofia non eravamo una coppia felice e la nascita di un bambino con grossi problemi fisici, fece il resto. Quando Paolo aveva circa sette anni, Sofia lo portò con sé al mare. Entrarono in acqua e da lì non ne uscirono più vivi, nessuno dei due”

Ero sconcertata. Dopo un attimo Pietro riprese a parlare. Stavolta la sua voce era più ferma, più calma. Disse: “Furono anni difficili quelli. Poi conobbi Renata e… eravamo pronti entrambi per ricominciare. Un anno dopo nacque Giulio. Ormai sono passati quasi trent’anni. Io e Renata siamo ancora assieme. Abbiamo lasciato a Giulio la nostra vecchia casa, ma come vedi… il cuore ogni tanto mi ci fa ritornare”. Nel silenzio di quel momento, dopo che Pietro aveva parlato, sentivo vivida la presenza di zia Giulia, come se anche lei avesse assistito a quel piccolo monologo. No, Pietro non aveva mai dimenticato il suo primo grande amore; quell’unione ostacolata da chi non aveva mai saputo amare davvero. Chissà com’era Renata. Gli ricordava Giulia in un certo senso? Aveva trovato in lei qualche affinità con quell’amore perso troppo presto? Potevano essere gli occhi, il sorriso, il carattere. Un nonsoché di familiare e di bello. Ma Renata avrebbe potuto essere l’esatto opposto di Giulia arrivata al momento giusto, quando entrambi erano pronti, aveva detto Pietro. Ma, in tutta questa storia, solo una cosa era certa: il nome che portava suo figlio. Ero certa che Pietro l’aveva scelto fin dal giorno in cui Renata gli aveva dato la lieta notizia.

Nei giorni successivi, incontrai di nuovo Giulio. Mi disse che suo padre era tornato a casa sua ma che sarebbe ripassato quel fine settimana assieme a Renata.

“E così lavori in teatro vero?”

Giulio continuava a ronzarmi attorno cercando anche piccoli spunti per parlare con me. Io non sempre ero dell’umore giusto per conversare. Gli avevo detto che ero sia costumista che arredatrice. “Hai preso una sorta di anno sabbatico allora…” insisteva lui.

Così, un giorno lo feci entrare in casa e davanti a una tazza di tè, gli raccontai la mia disavventura. “Sono stata coinvolta in un maxi tamponamento” iniziai. Capii subito dalla sua faccia che era rimasto deluso. Così proseguii: “Il fatto è… che l’incidente era stato studiato a tavolino. Fossi passata alcuni minuti prima, adesso io e te non saremmo qui a spassarcela, ma io, almeno io sarei impegnata chissà dove nel mio lavoro” A quel punto l’espressione di Giulio si era fatta più curiosa. Stava attendendo il seguito della storia, così proseguii: “Insomma… avevo preso un grande spavento, ma non mi sembrava di aver nulla di rotto. E la mia macchina? Ancora non lo sapevo. Mentre stavo valutando cosa fare, un tizio sbucato fuori dal nulla, aprì la portiera del passeggero e si sedette. A primo acchito, rimasi sbalordita. Il ragazzo era molto bello e si presentava bene anche nei suoi abiti, casual ma di marca. La prima cosa che i miei occhi catturarono, fu il suo sorriso, poi le mie orecchie ascoltarono il suono della sua voce. Potrei dire che era la perfezione assoluta. Mi disse: “Ho visto cosa è successo. E’ tremendo! Ti avevo già adocchiato sai? E così mi son detto: “Una bella ragazza come lei… Si sarà spaventata a morte! E allora ho accostato lo scooter e ti ho raggiunto. Non sei arrabbiata vero?” In quel momento mi sembrava che il mondo si fosse fermato in quell’istante. Sentivo le sirene che si avvicinavano sempre di più. Era probabile che ci fossero dei feriti, e comunque, c’era un verbale da erigere. Il ragazzo si presentò. Si chiamava Samuele. Disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo: “Rimango con te, ti aiuto io a parlare coi carabinieri. In quel momento lo trovavo un vero angelo venuto solo per non complicarmi la vita, tanto che, quando arrivarono i carabinieri, lasciai che Samuele parlasse, come se fosse stato presente al momento del tamponamento. Alla domanda: “Viaggiavate assieme?” Io annuii. Ero come in trance, abbagliata dallo sguardo di Samuele. Solo più tardi, dopo diverse ore dall’accaduto, nel controllare il verbale lessi: Concorso di colpa. Così da vittima mi ritrovai a essere responsabile, in parte del danno causato al veicolo davanti a me. Quella notte sognai Samuele e il giorno dopo me lo trovai sotto casa. “Come stai?” mi chiese subito con uno slancio che mi piacque molto. Gli dissi che stavo bene ma che non capivo come mai ero stata incolpata anch’io per quell’incidente visto che ero praticamente ferma. “Ero in coda, aspettavo solo di partire…” Samuele cercò di consolarmi, ma continuò a ribadire che non era il caso di contestare. “Quando si scrive un verbale” disse “viene inserito tutto ciò che emerge dai rilievi che vengono fatti e da ciò che viene detto”.

Quel giorno si offrì di farmi compagnia “per rallegrarti un po’” disse. Iniziò così la mia storia con Samuele, sbucato dal nulla nel traffico cittadino. Non fu difficile per me innamorarmi di lui. Quello fu un periodo che ritenevo fantastico. “Si vede che sei innamorata” mi dicevano tutti. Ed era vero. Poi, un giorno fui convocata in questura. E quel giorno, non so perché, non dissi nulla a Samuele. La prima cosa che mi chiesero riguardava proprio lui, come l’avevo conosciuto e in che rapporti ero con lui.

Fu forse la mia reazione a queste domande a farli credere alle mie parole. Raccontai per filo e per segno cosa era successo dopo che avevo ricevuto la botta da dietro, una botta che aveva generato un susseguirsi di tamponamenti. “Era un tamponamento provocato apposta” mi dissero gli agenti e Samuele, la persona di cui mi ero innamorata era un complice. Cadeva così miseramente un castello che avevo creduto si stesse consolidando. In realtà, con un soffio cadde giù come quello fatto con le carte. Da quel giorno Samuele non si fece più né vedere, né sentire. Sembrava si fosse volatilizzato. Ogni giorno immaginavo di vederlo e buttargli addosso tutto il mio dolore. Alcune settimane dopo, i carabinieri mi riferirono che due componenti della banda erano stati arrestati, ma altri, compreso Samuele, erano riusciti a fuggire.

Perciò, dopo essere rimasta sola, iniziò un periodo duro per me. Samuele mi aveva usata in mille modi, ma c’erano momenti che mi erano sembrati autentici. Continuavo ancora a sperare che si fossero sbagliati su di lui.

Intanto, stavo perdendo la gioia nel fare il mio lavoro. Allora, con tatto, mio padre mi suggerì di prendermi una pausa. “Vai a casa di nonna Ada” mi disse un giorno. “Lì c’è il mare. E poi…potresti ripiantare i buganvillee. A zia Giulia piacevano tanto… ” Mio padre si bloccò, incapace di andare avanti. I ricordi a lungo trattenuti, erano tornati con prepotenza. E forse erano così tanti e intimi che preferì lasciarli dov’erano. Così, ecco il motivo del mio soggiorno in questa casa. Dovevo disintossicarmi e cercare di non pensare più a lui”.

“E ci sei riuscita?” chiese Giulio.

Io sorrisi, non esattamente a lui. Mi guardai intorno poi dissi: “Credo di sì”.

Mi era parso di percepire un certo sollievo dopo la mia risposta. A un tratto disse: “Potresti rimanere qui per sempre e magari piantare davvero una pianta di buganvillee. Ci hai mai pensato?” “La mia vita è altrove” risposi guardando oltre le sue spalle. La mia frase era stata un po’ troppo lapidaria, così continuai: “Adoro questo posto. Qui ho vissuto anni belli, spensierati, nonostante nonna Ada non fosse la più amabile delle nonne. In questa casa ho conosciuto cosa significa soffrire la perdita di una persona cara. Non posso dimenticare la tristezza del giorno in cui arrivò la notizia della morte di zia Giulia. Io e lei eravamo legatissime…” Anch’io lasciai quei puntini di sospensione perché era impossibile esprimere a parole tutto ciò che aveva significato zia Giulia per me.

Giulio parve capire, perché per un po’ rimase in silenzio, finché lo sentii dire: “So che papà era innamorato di lei”. Io annuii e non ci fu bisogno di dire nient’altro.

Da quel momento sentii Giulio più intimo. La grande verità riguardante Pietro e Giulia era uscita in maniera naturale, senza imbarazzo da parte di Giulio. Era un dato di fatto, né più, né meno che quello. Alla fine, per smorzare un po’ gli animi, dissi: “Ti ho praticamente raccontato la storia della mia vita, ma non so niente di te. Sei anche tu in esilio in questo bellissimo posto di mare?”

“In un certo senso, sì. Ma la mia storia è meno articolata della tua. Sono un architetto che ha deciso di andarsene dallo studio ben avviato dello zio materno. In realtà sono un architetto paesaggista. Progetto il verde pubblico, ma anche quello privato. Solo che la mia visione del mondo non è esattamente in linea con ciò che richiede il mercato, così sono andato in crisi”. Rimanemmo in silenzio, entrambi persi nei nostri problemi. Alla fine dissi: “Il mio lavoro è quello di creare finzione, arredare appartamenti, ville, attici, persino barche di lusso. Finora ho allestito soltanto teatri che dovevano apparire stanze di una casa.

Adesso sembra che ci sia una buona proposta per un lavoro al cinema. Se tutto va bene, sarà qualcosa di molto impegnativo, ma più gratificante di certo anche se rimarrà pur sempre finzione. Tu invece, daresti vita a qualcosa di bello come un parco dove tutti potrebbero ammirare il tuo stile. Te lo auguro di cuore Giulio”. Lui sorrise senza convinzione, poi disse: “Per ora sto progettando qualcosa per casa mia. Vorrei rivoluzionare il giardino sfruttando lo spazio che c’è. Se tutto va bene, vedrai un piccolo giardino giapponese in miniatura”. Io rimasi sbalordita. Non avrei mai immaginato nulla di simile. “Sarebbe bellissimo!” esclamai con un entusiasmo che sorprese me per prima.

Giulio continuò: “L’idea piace anche a mio padre, mentre mia madre… è ancora un po’ arrabbiata perché ho lasciato lo studio di suo fratello. Ma quell'ambiente non faceva per me. Avevo perso la mia creatività in quasi otto mesi tra colleghi snob e insensibili a cui interessava principalmente il profitto”.

“Insegui il tuo sogno” dissi, rivolgendomi a Giulio, ma anche pensando a me stessa. Giulio mi sorrise, poi disse: “E tu il tuo. Non vedo l’ora di vedere questo film a cui tu parteciperai. Sono sicuro che troverò nei suppellettili e in ogni angolo di quella casa, il tuo stile”. Non pensavo più a Samuele e le parole di Giulio mi avevano commosso. Avevo bisogno di fare, di progettare e di veder realizzato il mio lavoro. Poi mi rattristai e dissi: “Anche se poi il mio lavoro sarà demolito?” Giulio mi prese le mani tra le sue. Quel contatto mi piaceva. Lui si avvicinò di qualche passo, poi disse: “Non devi più vederla in questa maniera. Devi invece essere orgogliosa di contribuire. Un film potrà essere ricordato non soltanto dalla sua trama e dagli attori che lo interpretano, ma anche dal tocco che avrai saputo darci tu”.

D’improvviso, la voglia di fare mi era tornata tutta. In un impeto di ottimismo, dissi: “Ma perché io e te stasera non andiamo a festeggiare?” Giulio aveva la perplessità scritta in faccia, così dissi: “Non c’è bisogno di avere qualcosa di concreto tra le mani, bastano i nostri desideri per ora. Progetti che prima o poi faremo in modo di concretizzare. Brinderemo a questo, stasera. Ti va?”

Fu una delle ultime volte che vidi Giulio. Alcuni giorni dopo suonò il campanello mentre iniziavo a fare le valige. Ero pronta ad andarmene ormai. Quando vide il trambusto, disse: “Allora, parti davvero?” Mi strinsi nelle spalle, poi dissi: “Sarei passata a salutarti però” “Be’, ero venuto per salutarti anch’io” disse Giulio, manifestando un certo nervosismo. Mi raccontò che era stato chiamato da un importante studio in Francia “Dove progettano esclusivamente giardini” disse, per poi aggiungere: “E’ da un bel po’ che mando curriculum fuori dall’Italia. Non te l’avevo detto per una certa scaramanzia…”

Gli sorrisi e gli buttai le braccia al collo.

“Congratulazioni” dissi, scostandomi un po’, ma lui mi attirò di nuovo a sé e disse: “Sai, non siamo tutti come Samuele” Io sentii il rossore salirmi fin sulle orecchie. Il suo bacio mi proiettò in un’altra dimensione. Fu una meravigliosa scoperta.

Prima di andarsene, Giulio disse: “Ho tentennato un po’ nell’accettare questa offerta. Mi mancherai molto Cecilia…” Il mio cuore batteva forte. Solo in quel momento mi rendevo conto che anche Giulio mi sarebbe mancato tanto. Però entrambi dovevamo andare per la nostra strada. Così, cercando di sciogliere quel groppo in gola senza scoppiare a piangere, dissi: “Hai fatto benissimo ad accettare Giulio. Sai quante cose avremo da dirci quando ci rivedremo? Ma… in quanto a promesse… adesso è meglio non farne”. Giulio mi prese il viso carezzandomelo con delicatezza, poi, con un mezzo sorriso disse: “Per ora…”

E così, mentre chiudevo il cancello della casa della mia infanzia, mi sentivo finalmente leggera e felice. Non c’erano castelli in aria nella mia testa, solo piacevoli sensazioni, ma anche la percezione che prima o poi avrei rivisto Giulio.

Solo mentre salivo in macchina, diedi un’ultima occhiata alla casa che stavo lasciando. Guardai in alto dove zia Giulia aveva passato tante notti insonne pensando al suo Pietro. E allora, non so perché dissi: “Sii felice per me zia”. Alzai gli occhi rivolgendo lo sguardo verso la finestra che un tempo lei apriva ogni mattina. Da lì poteva ammirare la sua splendida buganvillee. In quel momento mi sentii in colpa per non aver ripiantato quel rampicante che amavo tanto anch’io. Così, mi ripromisi che al mio ritorno, sarebbe stata la prima cosa che avrei fatto. Lo dovevo a zia Giulia, era giusto così.

E in quel momento, proprio in quel preciso istante, vidi un passerotto posarsi su quel davanzale. Lo presi come un segno, un buon segno.


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