Verso la fine di maggio a casa mia sorge sempre un quesito:
«Quando apriamo la casa al mare?»
È una specie di rito. Fino a pochi anni fa ci pensava mia madre. Il 25 aprile, che fosse bel tempo o che diluviasse, lei partiva con la sua utilitaria e, come diceva lei: «Vado ad aprire le porte all'estate!»
Già… per mia madre quella, era la sua vera casa. Quella che quando aprivi le finestre, sentivi entrare l'odore di salsedine nelle stanze. E lei l'accoglieva, finalmente felice. Quando sopraggiunse la malattia, non volle più tornarci. Un giorno, verso la fine dei suoi giorni, mi disse: «Mi raccomando Cecilia, promettimi che continuerete ad aprire la casa al mare. Lì, l'estate ha un sapore migliore.» Sul suo viso pallido, segnato dalla malattia, le era comparso un lieve sorriso, poi, aveva aggiunto: «Vorrei essere lì assieme a voi come è stato per tanti anni, e non in questo letto d’ospedale, ma dovermene andare sentendo lo sciabordio delle onde infrangersi sulla battigia, o i bambini correre felici rincorrendo un pallone, o mentre il carretto dei gelati passa, sarebbe ancor più sconvolgente. Lì tutto è vita, mentre io sto andando in contro alla morte.»
Ero ammutolita e mi sentivo inerme davanti a tanta lucidità.
Mia madre se ne andò in un piovoso pomeriggio di fine settembre. L’estate era davvero finita. Mi piace pensare che questo sia stato un piccolo regalo dal fato, visto che lei non sopportava la pioggia. Diceva sempre: «Chi può, resti a casa con un tempaccio come questo.»
Sono passati quattro anni da allora, e ogni anno la casa al mare è stata aperta. Ogni volta alzo la testa verso il terrazzo e spero di vederla sorridere e darci il benvenuto. Risento la sua voce che, volendo essere autoritaria, senza riuscirci, dice: «Ma insomma, siete sempre in ritardo voi!» Ma poi scendeva velocemente le scale e correva a salutarci: prima le mie figlie, poi mio marito, e infine io. Era una regola che si era data lei. Io non me la prendevo perché ogni volta mi sussurrava qualcosa all’orecchio. Di solito mi invitava a seguirla in cucina per raccontarmi le ultime novità dalla spiaggia. Ho sempre associato le cose belle, divertenti, romantiche, alla spiaggia, al mare, all’estate. Per esempio, ho sempre festeggiato il mio compleanno alla casa al mare. I primi tempi ne avevo sofferto perché non conoscevo nessuno. Poi sono arrivate le prime amicizie e via via, negli anni, la casa si riempiva di nuovi amici. Inventavamo nuovi giochi da fare, e ci divertivamo con poco. Se chiudo gli occhi, li rivivo tutti quei bei momenti. Noi bambini indossavamo i nostri costumi con gli infradito ancora pieni di sabbia. Mia madre non si lamentava mai per questo, diceva che la casa al mare doveva essere vissuta, senza preoccuparsi troppo per quel po’ di sabbia in più.
Ricordo ancora la mia prima estate lì. I miei genitori avevano trovato quella casetta da ristrutturare e non se l'erano fatta sfuggire. Mio padre amava pescare e mia madre adorava prendere il sole, un po' meno, cucinare il pesce preso da mio padre. E io che ero figlia unica, esploravo tutta la casa, saltellavo felice e chiedevo sempre: «Ma adesso stiamo sempre qua?» Mia madre sospirava. Lei era la prima a voler rimanere lì per sempre, ma in città c'erano altre incombenze. E poi, il lavoro di mio padre non lo permetteva. Mamma poi aveva i nonni da accudire. Insomma… dovevamo accontentarci di viverci solo nei mesi estivi. A ogni stagione, quei tre mesi passati lì, lasciavano in me sentimenti contrastanti. Ormai conoscevo tutti. C’era chi rimaneva come noi per tutti tre i mesi estivi, chi invece si accontentava di meno. C’era chi doveva ubbidire a una babysitter invece che ai genitori o ai nonni, e poi c’erano alcuni stranieri. Di solito erano americani che affittavano le ville più belle e costose. Avevo tredici anni quando conobbi Jason. Lui veniva dall’Illinois ma aveva origini italiane. Mia madre la chiamava cotta, io lo chiamavo amore.
L’estate del nostro primo bacio però, fu l’anno seguente. Eravamo entrambi quattordicenni e ci sentivamo più maturi, più consapevoli. Quell’anno avrei iniziato il mio primo anno di liceo, ma la scuola era ancora lontana. Ciò che mi importava erano le nuotate con Jason, il suo sorriso, quel suo continuo scusarsi con mia madre dicendo: «Sorry Ma’am» per la paura di disturbare, o per chissà cosa. Passavamo interi pomeriggi sotto l’ombrellone a guardare il mare. Lui mi parlava di Springfield, io di Roma. E mentre prendevo tra le mani la sabbia morbida per poi farla ricadere di nuovo a terra, sognavo altri mari, altre spiagge. Erano solo sogni di un’adolescente romantica. Immaginavo di trovarmi assieme a Jason su un’isola deserta ricoperta di palme e un tetto di paglia sopra la testa.
Oggi so che quegli anni sono stati tra i più belli e spensierati della mia vita. Ogni anno Jason tornava a passare l’estate in Italia. Io attendevo il suo arrivo come quelle spose che aspettano i mariti al ritorno dalla pesca. Ma un anno, Jason non venne. Era l’estate dei nostri diciannove anni. Ricordavo il nostro ultimo bacio, la sua promessa di tornare anche l’anno venturo. Per giorni avevo atteso un suo segnale, una lettera. Qualcosa che mi facesse capire che c’era una spiegazione per la sua assenza. Ma non arrivò mai niente. Mia madre aveva abbandonato la sua aria burlona, perché aveva visto che soffrivo.
Ma, a volte capitano i cosiddetti imprevisti, quelle cose assurde a cui non sai dare una spiegazione. Spesso mi domando se il destino non si sia servito di Jason per far cambiare rotta alla mia vita. Io, che ero da anni così piena di lui, non riuscivo a vedere ciò che mi girava attorno. Capitò un giorno che mio padre, vedendomi sempre triste e imbronciata, mi invitasse in barca con lui e un suo amico. Disse: «Dai, vieni anche tu. Facciamo un giro al largo sperando di fare buona pesca. Ti va?»
Ero riluttante, ma era sempre meglio che rimanere in casa a rimuginare su Jason. Quel giorno, ricordo che fu molto proficuo per la pesca, e non solo. Ciò che mio padre aveva omesso di dirmi, era la presenza del figlio del suo amico. Il ragazzo si chiamava Diego e il suo sguardo, era anche più truce del mio. Mi disse che della pesca non gli importava nulla, che era lì come in una sorta di punizione, e che non dovevo per forza conversare con lui se non mi andava. Insomma… non fu un approccio facile per nessuno dei due. Gli spazi all’interno della barca, non erano grandi, e, volenti o nolenti, iniziammo a conversare. Più che altro ero io a fargli domande. Le sue risposte erano spesso dei monosillabi. Devo dire, molto scoraggianti. Stavo cominciando a stancarmi quando mio padre disse: «Guardate lì ragazzi!» Non molto lontano da noi, una coppia di delfini stava baldanzosamente nuotando e forse, giocando. Fu allora che Diego si entusiasmò. Tirò fuori dal suo zaino una mega macchina fotografica e iniziò a scattare foto. Accompagnava quei click da continue esclamazioni di stupore e incredulità. Da quel momento in poi, l’atmosfera, cambiò. Da truce, divenne entusiasmante. Era come se gli si fosse acceso un pulsante invisibile, e Diego iniziò a raccontarmi della sua grande passione per la fotografia, soprattutto gli piaceva fotografare la natura. «E quindi? È stata una bella occasione questa per te» dissi, cecando di condividere il suo entusiasmo.
Successe allora un altro momento imprevedibile. Diego si girò verso di me a guardarmi. Era come se mi vedesse per la prima volta. Allungò una mano verso di me e mi spostò una ciocca di capelli facendomi trasalire. Poi, senza dire una parola, prese di nuovo la sua fotocamera e mirò dritto verso il mio viso.
Io ero arrossita. Uno, due, forse tre scatti. Poi la posò e mi sorrise. «Sei bella» disse, facendomi arrossire ancora di più.
E io, forse per togliermi dall’imbarazzo, o per cambiare discorso, gli annunciai che l’indomani avrei compiuto diciannove anni. E ancora, senza rifletterci su, lo invitai a mangiare una fetta di torta. «Vieni verso le nove, ti va?»
Diego accettò. L’indomani, arrivò a casa con un mazzo di fiori freschi e un altro regalo che conservo ancora oggi alla casa al mare: «La foto di ieri!» esclamai. Mia madre si prodigò in mille apprezzamenti e io non riuscivo a capire come mi stavo sentendo. Di certo c’era, che quel giorno non avevo mai pensato a Jason, ero invece stata in fibrillazione, contando le ore che mi separavano dal rivedere Diego.
Il giorno dopo lo vidi in spiaggia, era bianco come il latte. Mi confessò che si era sempre rifiutato di uscire da casa, più che altro per protesta contro quella vacanza che era stato costretto a fare assieme ai genitori. «Non ti piace il mare?» gli chiesi, alludendo alla sua pelle bianca, ma non solo. Lui allora divenne serio. Mi raccontò che un suo amico era annegato mentre nuotava. «E quindi ho qualche remora a venire al mare» mi confidò. Non potevo dargli torto, ma poi cercai di sapere qualcosa in più su di lui e gli chiesi: «Ma se il tuo amico non fosse morto annegato, pensi che ti piacerebbe stare al mare?» Allora lui sorrise, e ancora una volta allungò una mano verso i miei capelli. Questa volta non c’era una foto da farmi, solo il piacere di toccarmi. Mi avvicinai un po’ di più verso di lui, e carezzai anch’io quei suoi capelli castani, lisci e lunghi fin quasi sulle spalle. «In questo momento» disse, «non potrei desiderare un posto migliore dove stare. Il tuo ombrellone è bello grande, sembra fatto apposta per noi due. Il mare è calmo. E poi mi piace sentire questo vociare allegro di bambini che giocano sulla sabbia…Dà un senso di tranquillità, non trovi?» Deglutii. La sua voce mi emozionava. Era come una musica dolce che avrei ascoltato per ore. Mi innamorai perdutamente di lui. Riconobbi subito quel sentimento perché era diverso da ciò che avevo provato per Jason in tutti quegli anni. Ero anche più grande, più matura, forse… Quella sera, dopo cena, Diego venne a prendermi. Passeggiammo per un po’ per le stradine del piccolo centro balneare. Mi offrì un gelato. Poi andammo sul pontile dove ci baciammo per la prima volta. Di momenti come quello ne seguirono molti altri, ma se dovessi dare un voto alla più bella estate della mia vita lo darei proprio a quella. Mi sembra ancora di sentirli quei delfini mentre piroettano felici in acqua, l’entusiasmo di Diego nel fotografarli, e il cambio di rotta che quell’evento ha significato per noi. E oggi, oggi siamo qua davanti alla casa al mare. Le nostre figlie sono impazienti come sempre di cambiarsi, mettersi il costume e sentirsi libere di esprimere la loro arte cercando di fare un castello di sabbia più bello di quello dell’anno passato. Ogni anno abbiamo ferie sempre più corte, ma questi venti giorni ce li vogliamo godere tutti fino all’ultimo. Ogni tanto qualche amica mi chiede se non ci annoiamo ad andare sempre nello stesso posto per le vacanze estive. Io e Diego a volte ne abbiamo parlato e siamo giunti a una conclusione unanime: la nostra casa al mare ci aiuta a ricaricarci, è un posto speciale che sa di sale e bei ricordi. E mentre apriamo i balconi, i raggi del sole irradiano quelle stanze tenute chiuse per troppo tempo. Una leggera brezza marina smuove piano le tende. Lo prendo come se fosse il saluto di chi non c’è più. Sento lo sguardo di Diego su di me. I nostri occhi si incontrano. Non serve parlare, sembrano dire: «Finalmente estate! Finalmente casa!»
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