“Rigattieri dal 1888!” Era questa la scritta che non potevo fare a meno di leggere ogni pomeriggio al rientro delle mie attività.
Di solito quando la mattina uscivo, ero talmente di fretta che difficilmente i miei occhi si posavano su quell’insegna. Ma la sera, il ritorno era più lento. Osservavo le case, i fiori ai davanzali. E chissà perché, ogni volta scoprivo qualcosa di nuovo, particolari forse insignificanti, ma che ai miei occhi erano sfuggiti e “Rigattiere dal 1888” era sempre lì ad attendermi, mi annunciava che ero quasi arrivata a casa. Abitavo in una zona residenziale dove non mancava il verde con viali alberati e alcune aree per i più piccoli. A vederlo così non si sarebbe detto, eppure quel quartiere, come altri del resto, era sorto dalle ceneri di baracche buttate giù nel secondo dopoguerra. I miei nonni si innamorarono di una grande casa un po’ appartata, ma che dava facile accesso ai negozi della zona. Io ho vissuto in quella casa sin dalla mia nascita anche se non arrivai a conoscere il nonno perché morì giovane lasciando una moglie e due figlie piccole: mia madre Teresa e zia Clara. Mia madre era poco più giovane di Clara, ma io avrei sempre detto il contrario. Zia Clara aveva il portamento elegante e i capelli castani lasciati sciolti e lunghi. Mia madre invece li teneva con la frangia e a caschetto. Erano entrambe belle, ma zia Clara sorrideva di più e io la accompagnavo spesso a far compere.
Tutti i vecchi esercizi pubblici che avevano popolato quel posto tanti anni prima erano spariti. Tutti, tranne uno: la bottega del rigattiere, una vera istituzione che con orgoglio si insigniva di esercizio più vecchio del paese e anche del circondario.
Da bambina mi era capitato spesso di entrarci. La prima volta c’ero stata assieme a zia Clara. Avrò avuto cinque o sei anni e tenevo stretta la mano della zia. Quel posto aveva un odore che sapeva d’antico. C’erano vecchi grammofoni, dischi, abiti, piatti, bicchieri, bambole e un’infinità di oggetti che nemmeno conoscevo. “La vuoi una bambola parlante?” Ricordo ancora oggi come avevo sussultato dopo aver sentito la voce roca del signor Rino farmi quella domanda. Io non ero riuscita a dire una sola parola, non avevo nemmeno annuito. Quel posto mi metteva a disagio e volevo andarmene al più presto. Ma la zia era di diverso parere. Il titolare l’aveva indirizzata a un reparto di borse indicandogliene una in particolare. Era di un bel rosso vivo, sembrava nuova, non usata. L’uomo ne decantava la bellezza e zia Clara se la rimirava tra le mani, poi, incoraggiata dal signor Rino, la aprì. Speravo che la zia si decidesse presto e che poi non comprasse più niente. Avevo voglia di tornarmene a casa alla mia normalità. Ma il rito dell’apertura di quella borsa, mi parve infinito, come se ci fosse qualcosa di prezioso da scoprire. Mentre la osservavo, i suoi occhi diventavano più brillanti e, nel breve tragitto che ci separava dalla nostra abitazione, la vidi più euforica di quando eravamo uscite. Anch’io sorridevo mentre indossavo il mio nuovo cappellino rosso. Poco prima di aprire il portone di casa la zia volse lo sguardo verso di me e disse: “Questa, tesoro mio, è molto più che una semplice borsa…” Io le sorrisi anche se non avevo capito il significato di quell’affermazione, ma era stato ugualmente bello condividere quel pensiero con lei, come se fossimo due vecchie amiche.
Quel nuovo acquisto, zia Clara lo teneva con cura perché lo utilizzava solo in certe occasioni. Si imbellettava, metteva il suo vestito buono, quello che aveva confezionato lei stessa: un abito a tubino nero di lino. Dovevo ammettere che le stava davvero bene. Sfiorava le labbra con un velo di rossetto e con la stessa delicatezza imbellettava le guance. Terminava l’operazione con due gocce di profumo dietro le orecchie e poi usciva di casa facendo risuonare il pavimento coi tacchi delle sue scarpe rosse. Allora, mia madre e la nonna si guardavano. Nel loro sguardo c’era disapprovazione. Con voce indagatrice chiedeva a mia madre: “Sai chi è?” e siccome mia madre non rispondeva, la nonna la incalzava con fare brusco: “Teresa! Siete sorelle cribbio! Possibile che non si sia confidata con te?” Mia madre taceva, mia madre sapeva, ma per qualche ragione non voleva condividere con nessuno, nemmeno con la propria madre quell’informazione.
Alcuni anni dopo, ne capii la ragione e quando accadde, fui avvolta da un velo di tristezza, misto a delusione e rancore.
Quel giorno avevo accompagnato ancora una volta zia Clara a fare delle compere. La zia amava vestirsi bene, ma alla bottega del rigattiere ci era affezionata e ci andammo anche quel giorno. Erano passati una decina d’anni da quando vi avevo messo piede per la prima volta. Il signor Rino aveva lasciato il posto al figlio Ettore anche se non era raro trovarlo ancora lì ad accogliere i visitatori. Anche quel giorno me lo trovai davanti mentre osservavo uno scrittoio in noce. “Ma come sei cresciuta! Immagino che adesso le bambole non ti interessino più vero?” Ero arrossita. E come un tempo, rimasi in silenzio. Zia Clara intervenne in mio favore dicendo: “Veramente Serena non ha mai preso bambole qui. E poi lei è una ragazza a cui piace la scuola e studiare. A certe cose non ci pensa ancora. Vero tesoro?” Nonostante la zia avesse voluto aiutarmi, mi sentii avvampare ancora di più. Non saprei spiegare, ma mi ero arrabbiata con lei forse per il tono della sua voce leggermente malizioso, o per avermi fatto sentire ancor più in imbarazzo. Nel tragitto verso casa lei sembrava sempre la stessa, ma io rispondevo alle sue domande con acidità e quando varcammo il nostro portone, c’era ancora tensione.
Invece di attenuarla, quella tensione, rimarcai la dose su alcune questioni di pochissimo valore. Questa volta, zia Clara mi guardò con disprezzo poi disse: “Inutile, tuo padre ha ragione, sei fredda come un ghiacciolo: tale e quale a tua madre”. Zia Clara non si era accorta che proprio in quel momento sopraggiungeva mia madre. Quel che aveva sentito, inutile dirlo, non le era piaciuto. La discussione allora si fece più accesa. Mi trovai mio malgrado a essere spettatrice di un litigio molto più serio che riguardava non più me, ma mia madre e sua sorella. Capii allora che l’astio che provavano l’una per l’altra arrivava da lontano. A un certo punto sentii zia Clara dire: “Finiamola di tergiversare. Sono stanca di fare la parte dell’intrusa quando dovrei essere io la padrona di casa e Gianni mio marito, non il tuo”. In quel momento fui sopraffatta da ciò che avevo sentito. I pianti e le urla attirarono la nonna che ordinò alle figlie di smetterla, come se fossero state ancora bambine. Zia Clara lasciò la stanza, si diresse verso l’ingresso e se ne andò sbattendo la porta. Mia madre era rimasta immobile, i muscoli contratti. La nonna, disgustata andò in cucina. Adesso quel silenzio che inondava la stanza, mi sembrava come una nuvola nera carica d’acqua, pronta a esplodere. C’erano tanti pensieri che attraversavano la mente di mia madre, ma che non voleva condividere con me. Invece io avrei voluto avere chiarimenti, così la affrontai. Le chiesi di parlare, di darmi delle spiegazioni in merito alle affermazioni fatte da zia Clara. Ma gli occhi di mia madre si velarono di lacrime. La vidi scappare in camera sua e io rimasi lì in piedi senza risposte. Al loro posto erano sorti dubbi e pensieri, ma nessuna certezza. Da quel momento l’atmosfera in casa non migliorò e il nervosismo si fece sempre più palpabile. Le due sorelle si evitavano platealmente e io mi sentivo tra due fuochi. Mio padre, quando c’era, minimizzava. Si mostrava anzi, più affabile nei miei confronti. Mi chiedeva di raccontargli della scuola e dei miei progetti. Capivo che era soltanto un modo per alleggerire la tensione visto che di solito non si curava di me. Nell’aria c’erano dei cambiamenti. Li percepivo. Era come se qualcuno stesse tessendo fitte trame per porre fine a quella situazione. Infatti, un giorno al ritorno da scuola, vidi due grosse valige che la zia teneva in mano. Mi fece un timido sorriso, poi, dopo aver aperto la porta, la richiuse dietro di sé e non la vidi più.
Avevo intuito che aveva aspettato che tornassi per darmi un ultimo saluto. Mi sentii triste. Con la sua partenza, si era interrotto per sempre qual rapporto che avevamo, o che io avevo sempre creduto avessimo. Un’amica che se ne andava senza lasciare indirizzo o un modo per riavvicinarci.
La tensione non si dissolse dopo la sua partenza. Mia madre era costantemente di malumore e mio padre passava ancor più tempo fuori casa. La nonna continuava a ripetere sempre le stesse frasi, la sua preferita era: “Ah! Se ci fosse stato ancora vivo il nonno!” Mi chiedevo spesso cosa mai avesse cambiato la presenza del nonno a casa nostra.
La vita casalinga non era soddisfacente, così mi impegnavo cercando di dare il meglio di me a scuola. Fantasticavo su quello che avrei costruito io nella mia vita. E anche se davanti a me c’era un esempio di famiglia disastrata, ero convinta che fuori di lì, qualcosa di bello si poteva sempre trovare.
Nonna morì all’improvviso quando stavo per compiere diciannove anni. Io e lei non eravamo mai state molto vicine, ma la sua scomparsa rese ancor più instabile quei pilastri che tenevano in piedi la nostra famiglia. Quello fu un periodo di caos totale. Zia Clara non si fece vedere al funerale, ma seppi poi che era stata vista nei paraggi del cimitero dopo che noi ce n’eravamo andati via. Ancora una volta non capivo questi atteggiamenti e nemmeno cercavo di indagare al riguardo. Di certo, qualcuno l’aveva informata.
Poi, una sera, alla vigilia dei miei vent’anni i miei genitori mi misero al corrente di una loro decisione: “Ci abbiamo riflettuto su parecchio e… pensiamo di andarcene in Germania” Era stata mia madre a parlare per prima. La mia espressione di sbigottimento era evidente sul mio viso, tanto da far sorridere mio padre che, schiarendo la voce proseguì: Il fatto è che la filiale dell’azienda per cui lavoro, ha bisogno di manodopera esperta e… hanno chiesto a me se ero disposto a trasferirmi. Tua madre è entusiasta all’idea di questo cambiamento”
Io ero balzata in piedi e con più irruenza di quella che avrei voluto, dissi: “Dovrei venire con voi in Germania?” Nonostante tutto, non volevo lasciare il posto dove ero nata. Da poco frequentavo un ragazzo con cui avevo iniziato una relazione. Per nulla al mondo l’avrei interrotta solo per accontentare i miei genitori che non si erano mai dimostrati premurosi nei miei confronti. In quel periodo avevo dovuto ammettere che la nonna e perfino zia Clara erano state più affettuose con me, molto più di mia madre e mio padre. Ma, ancora una volta mi sbagliavo. I miei non intendevano portarmi con loro. “Hai quasi vent’anni Serena, vorrai vivere la tua vita come meglio credi. Ecco perché pensiamo che tu stia meglio qua. Potrai continuare a vivere in questa casa” Mio padre aveva poi aggiunto: “Potrebbe anche fallire il nostro trasferimento, in tal caso, sapremmo dove tornare”.
Dopo quella lite tra sorelle, avevo immaginato che mio padre fosse l’amante di zia Clara pur continuando a vivere con mia madre. Fu perciò qualcosa di inaspettato quel trasloco. Avrei voluto esprimere le mie perplessità al riguardo, ma non c’era mai stata una grande intimità tra noi. Così li vidi andarsene ognuno con una valigia. E chissà perché, mi tornò in mente una scena simile: zia Clara e le sue due valige davanti alla porta di casa. Il loro abbraccio non era stato caloroso. L’avevo interpretato più come una prassi che qualcosa di veramente sentito, dopotutto, io ero la loro unica figlia…
Una volta rimasta sola, iniziai a sentirmi a disagio tra quelle mura. Non riuscivo a capire se fosse dovuto a quella situazione, nuova per me, o se ci fosse dell’altro.
Avevo trovato lavoro in una grossa multinazionale e anche se lo stipendio non era alto, mi dava di che vivere dignitosamente. Inoltre, cercavo di passare più tempo fuori che dentro casa. Ma non potevo ignorarla del tutto. Così, un giorno mi decisi a entrare nella stanza di zia Clara che un tempo condivideva con la nonna. Mia madre non ci aveva più messo piede da quando la nonna era morta. Il sole era ancora alto, migliaia di granelli di polvere danzavano davanti a me facendomi sternutire. Intanto, non riuscivo a fare a meno di osservare quei due letti perfettamente fatti coi due copriletto azzurri che rimboccavano i cuscini. Mi sentii molto triste pensando soprattutto alla nonna e a tutte le volte che in quel letto ci aveva dormito. Anche quel giorno di poco più di un anno prima la immaginai china a rifare per l’ultima volta quel letto dove non avrebbe più dormito. La nonna si era sentita male in cucina mentre preparava la colazione. Fu portata in ospedale ma fu inutile, morì poco dopo. La stanza aveva bisogno di aria, perciò aprii la finestra anche per sentire i rumori che provenivano dalla strada, per darle quella vita che mancava. Avevo pensato di fare qualche cambiamento perciò dovevo trovare il coraggio per aprire anche l’armadio.
Iniziai con la parte assegnata a zia Clara. Immaginavo che ci fosse rimasto quasi nulla ma mi sbagliavo, c’erano ancora indumenti che le appartenevano. Quelle ante aperte mi parlavano di lei e sprigionavano il suo profumo. La rivedevo mentre se lo metteva dietro le orecchie e usciva vestita elegante portando al braccio la sua borsa rossa, quella borsa a cui tanto era stata affezionata. Aprii un cassetto e non mi ci volle molto a scoprire che quella borsa era rimasta lì. Non riuscivo a credere che zia Clara non l’avesse portata con sé.
Mi sedetti sul tappeto che si trovava ai piedi del suo letto e per la prima volta mi ritrovai a toccarla. Era un po’ ruvida al tatto, ma profumava di cuoio. Chiusi gli occhi e rivissi quel momento di tanti anni prima. Rivedevo gli occhi di zia Clara che brillavano. La sua raggiante felicità mentre usciva dal rigattiere col suo nuovo acquisto. D’improvviso mi tornò in mente l’invito che le aveva fatto il signor Rino, quello di aprire la borsa. E come un flash, ricordai l’espressione sul viso della zia. Oggi l’avrei descritta come: soddisfatta. E, dopo aver richiuso velocemente la borsa, l’aveva acquistata. E adesso io ero lì, con la borsa in mano desiderosa di scoprire qualcosa che forse non c’era più o che magari non c’era mai stato. Tirai la cerniera e finalmente guardai. C’era un bigliettino che presi subito in mano. C’era scritto: “Ti è piaciuta la sorpresa?” C’era poi un indirizzo che non conoscevo e un P.S. che diceva così: “Queste chiavi sono del portone d’ingresso e della porta blindata”. Dopo aver letto quelle istruzioni, mi sentivo confusa. Il tutto era firmato con una semplice G. Mi chinai per riporre la borsa al suo posto e fu in quel momento che toccai qualcosa. Era un foglio di carta anche macchiata, ma l’inchiostro era leggibile diceva così: “Vai dal rigattiere, c’è una sorpresa per te. Chiedi a Rino, lui sa tutto. Tuo G
Chi era quel misterioso G? Era Gianni, mio padre? Qualcosa mi diceva che era lui. E se lo era davvero, era finita tra loro?
Aprii un cassetto senza uno scopo in particolare, e quasi non fui sorpresa di trovarvi un fascio di lettere.
Presi in mano quella che stava in cima. La calligrafia era irregolare, era quella di zia Clara. Lessi:
“Non so nemmeno io perché continuo a scriverti dal momento che hai scelto di stare con Teresa: tua moglie nonché mia unica sorella e migliore amica, un tempo. Me ne vado perché ancora una volta lei ti ha stregato. Non posso più stare sotto il tuo stesso tetto. E poi, come dicesti tu un giorno: “Io sono un’ospite, anche se di lusso” be’ mio caro, sono stufa di stare ai tuoi comandi. Ti è sempre piaciuto tenere il piede su due scarpe, e io ti ho assecondato sempre solo per il fatto che ti amavo. Teresa invece non ti ha mai amato, ma lei ti ha dato una figlia e io no, come spesso ti è piaciuto rimarcare. Allora, addio Gianni. Non cercarmi più”.
I dubbi, se mai ne avessi avuti, si dissolsero in un baleno. Non c’era una data, ma immaginavo risalisse a quando zia Clara se ne andò. Non capivo perché avesse lasciato tutte quelle prove lì. Forse desiderava che mia madre trovasse quel materiale scottante, o forse aveva soltanto desiderato lasciarsi tutto il passato alle spalle.
Dopo quella lettura rimasi seduta su quel tappeto lasciando che la mia mente vagasse tra i ricordi e, come se si fossero aperti cassetti chiusi da anni, rivedevo zia Clara sorridermi mentre, ancora piccola, mi porgeva un regalo. A quel tempo avevo una specie di venerazione per quella donna. Era più dolce di mia madre. Ero forse quella figlia che avrebbe voluto dare a mio padre ma che non era arrivata mai. Ma nel leggere quelle parole, scritte di certo in un momento di rabbia e delusione, vedevo una persona diversa, come se il suo modo di fare verso di me fosse stato costruito, un linguaggio silenzioso che dedicava non a me, ma a un uomo che aveva legalmente perso e che le donava solo attimi rubati alla sua famiglia.
Cercai di risvegliarmi da quel torpore in cui ero caduta. A che valeva rimuginare su qualcosa che non mi apparteneva? Quell’uomo così conteso tra due sorelle: mio padre, ai miei occhi era sempre lo stesso: totalmente indifferente alla mia vita. Eppure, nonostante ci provassi, non riuscivo a rimanere distaccata verso ciò che avevo appreso. Una parte di me avrebbe voluto uscire da quella stanza e dimenticare tutto ciò che avevo scoperto. Poi pensai che conoscevo davvero poco di tutta quella storia. Mi chiedevo come fosse stato possibile che una donna come zia Clara avesse resistito più di quindici anni a vivere a stretto contatto col la famiglia del suo amante. E perché mia madre aveva accettato quella situazione? Mi avvicinai di nuovo a quel fascio di lettere e presi la prima dal basso. Avevo deciso: volevo sapere. Notai la scrittura della prima lettera che avevo letto: era la calligrafia di mio padre. Lessi: “Mia Clara diletta…” Sentii una vampata di calore che mi procurò un forte disagio. Non riuscivo a immaginare mio padre nell’atto di scrivere una frase così dolce. Non lo avevo nemmeno mai visto fare una carezza a mia madre se è per questo. Misi da parte ciò che conoscevo di quell’uomo e ripresi a leggere quello scritto che, secondo la data riportata risaliva a ventun anni prima, poco tempo prima che io nascessi. La lettera continuava così: “La tua lettera mi ha letteralmente sconvolto. Mi spiace molto per ciò che ti è successo e per la tua impossibilità di scrivere per tanto tempo. Speravo tanto che tu avessi trovato davvero una persona migliore di me, invece hai dovuto ricevere le ultime notizie da tua madre in un modo che non avrei voluto. Hai tutto il diritto di avercela con me. Non so nemmeno io perché ho agito a quel modo. Trovai Teresa alla festa di Renato senza che ne sapessi niente. Quando le chiesi tue notizie mi disse che saresti rimasta a Londra almeno un altro anno. Io trasalii. Allora lei si mise a ridere e disse che mi avrebbe consolato volentieri visto che anche tu sembravi divertirti un sacco lontano da casa. Non avevo ricevuto tue notizie da un po’... So che questa non è una scusa. Non voglio dare tutta la colpa a Teresa ma… quei suoi occhi così uguali ai tuoi… Mi ci specchiai. Fu questo il mio primo sbaglio, il secondo fu che finimmo a letto assieme. Ero furibondo con me stesso per la mia debolezza. Speravo che la cosa fosse finita là, invece ci ricascai altre volte. Il resto lo sai. Quando venne da me a dirmi che aspettava un bambino, non volevo crederci. Mi mise davanti al fatto compiuto e io mi sentii in trappola. Mia dolce Clara, non ho dimenticato i nostri progetti, i nostri desideri, ma adesso Teresa è di sette mesi e non si può più tornare indietro. Ci siamo sposati in fretta e furia. Inutile dirti che non la amo. Non riesco a sentirmi coinvolto nemmeno con il figlio che porta in grembo. Non merito niente di buono, lo so, ma ti sogno sia di giorno che di notte. Ho un piano per noi due. Tuo per sempre. Gianni”
Posai la lettera e richiusi l’armadio. Avevo letto a sufficienza per farmi un quadro più completo su ciò che era la mia famiglia e su ciò che non volevo diventare: uguale a loro.
Ormai erano più di cinque anni che non vedevo e sentivo zia Clara. Nessuno in famiglia l’aveva più menzionata, nemmeno per criticarla, nemmeno per sbaglio. Forse, aveva davvero cambiato vita. Quello che speravo era che fosse riuscita a dimenticare mio padre, a dimenticarlo sul serio. Non si poteva soffrire per un uomo così. In quel momento mi venne in mente Bruno, il ragazzo con cui mi vedevo da un po’. Spinta da quel turbinio di emozioni, mi chiesi che cosa ci spingesse a stare assieme. Era vero amore il nostro? O semplice attrazione? Sinceramente, non sapevo darmi una risposta. Non sapevo nemmeno se la mia storia con lui sarebbe continuata, ma giurai a me stessa che, se un giorno avessi avuto dei figli, sarebbero nati da un atto d’amore non come me che ero stata concepita solo per un piacere temporaneo che con l’amore non aveva nulla a che vedere.
Mi affacciai alla finestra. Ormai il pomeriggio stava lasciando il posto alla sera. Le insegne dei locali cominciavano ad accendersi, tra tutte la più grande era quella del rigattiere. Spiccava con orgoglio quella data: 1888. Mi venne da sorridere ripensando al vecchio signor Rino che voleva darmi una bambola parlante tanti anni prima. Guardai il cielo e notai che si stava tingendo di rosso: era un tramonto fantastico, un regalo per tutti, ma che pochi riescono ad apprezzare. In quel momento mi sentii pervadere da una senso di pace: un momento solo per me. Stavo imparando che la vita può essere dura, ma sa darti anche gioia, sta soltanto a noi riconoscerla e sentivo che c’era speranza mentre guardavo quelle striature rossastre dissolversi piano piano davanti a me.
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