C’è una mappa da qualche parte che può essere consultata da chi desidera una vacanza da brivido.
Vi sono elencati numerosi castelli dove si possono fare dei simpatici incontri notturni, vengono chiamati “disturbi del sonno” come: porte cigolanti, finestre che si aprono improvvisamente, rumorosi piatti cadenti, per non parlare delle tremende risate diaboliche, o dei ritratti che ti fissano come se avessero dei veri occhi.
E non dimentichiamo l’immancabile lenzuolo bianco che sbuca fuori dagli angoli più nascosti del maniero.
Questa mappa aveva gettato nello sconforto i proprietari di un antico castello. Il motivo era molto semplice: lì, non si erano mai visti dei fantasmi. Nonostante questo, gli affari andavano bene. La veduta panoramica era strepitosa, e l’essere vicini a un bellissimo lago, li rendeva il posto ideale per i molti appassionati di vela durante la bella stagione, ma anche l’inverno attirava visitatori, soprattutto pattinatori che sfruttavano quello spesso strato di ghiaccio, per piroettare e danzare in un contesto da favola. Anche i partecipanti all’annuale torneo di golf, sceglievano di andare sempre lì, al castello.
Triste a dirsi, nessuno chiedeva mai se lì ci fossero fantasmi. E intanto i proprietari, più guardavano quella mappa, più pensavano: “Che beffa!”
Già ... ma chi erano i proprietari di quel castello che sembravano tanto afflitti per non essere stati inclusi nella mappa? Il loro aspetto era quello di una tranquilla coppia di mezza età.
Dei veri signori, a detta di tutti, un po’ tristi magari, ma davvero molto, ma molto gentili.
Quello che nessuno sapeva o minimamente sospettava, era che loro, erano due veri e autentici fantasmi. Forse gli unici che fossero degni di tale nome, da quelle parti.
Conoscevano bene i trucchi che venivano pietosamente usati negli altri castelli per attirare i turisti. E loro, che fantasmi lo erano veramente, non venivano nemmeno presi in considerazione.
Erano vissuti più di duecento anni prima ed erano stati il conte e la contessa Coleman.
Il castello apparteneva alla famiglia Coleman da diverse generazioni. Un casato nobile, ricco e potente.
George e Sylvia, questi erano i loro nomi, erano stati una coppia felice. Il loro unico cruccio era stato quello di non aver avuto figli, perciò, l’eredità, sarebbe andata al loro unico nipote, nonostante il suo carattere difficile.
Forse, George e Sylvia avevano scusato troppe volte il comportamento del ragazzo perché un giorno si rivelò in tutta la sua malvagità, escogitando un piano per eliminare i due poveri coniugi.
Farli morire non gli bastò, lanciò loro una maledizione: dopo cento anni dalla morte, si sarebbero risvegliati come fantasmi, ma, allo scadere del cinquantesimo anno, tutto sarebbe cambiato. Un giorno si risvegliarono con sembianze umane. Trovarono una lettera con istruzioni ben precise. “Miei cari zii, è giunta l’ora per me di divertirmi. So che ci tenevate tanto al vostro ruolo di fantasmi tradizionali, ma io non sono di questo avviso. Rimarrete fantasmi, ma perderete i vostri poteri. Di notte invece, cadrete in un sonno profondo. Vi auguro lunga felicità!”
Forse questa potrebbe non sembrare una vera maledizione, dopotutto potevano vivere quasi come delle persone vere, ma le cose non erano così semplici come potrebbero sembrare. La loro famiglia vantava intere generazioni di fantasmi, perciò si sentivano un po’ ridicoli in quelle vesti, era come essere dei fantasmi a metà.
E poi c’era un’altra ragione non certo meno seria. Le regole del castello per tutti i clienti erano molto rigide. Alle dieci di sera tutti dovevano essere nelle loro stanze.
Quella era l’ora in cui i due poveri fantasmi dovevano ritirarsi. Era come se entrassero in un momentaneo letargo per poi risvegliarsi l’indomani di buon’ora.
Erano preoccupati, perché la notte il castello era praticamente incustodito. E se qualcuno nella notte avesse chiesto di loro?
I due fantasmi da anni cercavano una soluzione al loro problema, ma sembrava che niente li potesse aiutare.
Un giorno però al conte Coleman venne una grande idea. Avevano sempre mascherato la loro reale condizione di fantasmi. Erano stati molto severi con loro stessi, avevano pensato: “Se dobbiamo farci vedere solo di giorno, come se fossimo una normale coppia di coniugi, allora ci comporteremo come tale”.
Avevano imparato che per entrare in una stanza dovevano aprire le porte e non passarci attraverso. Ora invece era tempo di ripristinare quei vecchi poteri e di farsi conoscere dai loro clienti per quello che realmente erano: due fantasmi!
Decisero così di chiudere il castello per una settimana in modo da potersi allenare tranquillamente.
Erano molto emozionati, ma anche titubanti. Non era da sottovalutare l’ipotesi che i poteri si fossero arrugginiti, o peggio, che li avessero persi del tutto.
Per prima cosa provarono a entrare nelle stanze passando attraverso le porte. Il primo tentativo fu un colossale insuccesso, sbatterono fragorosamente contro la porta con relativo bernoccolo in testa.
Era alquanto avvilente quel primo approccio, ma non potevano lasciar perdere. Rinunciare, avrebbe significato vivere per sempre nell’infelicità.
Dopo due giorni andati a vuoto, decisero di prendersi una pausa, facendo di tutto per non pensarci, ma il quarto giorno, non ebbero dubbi: ci riprovarono.
Si presero mano nella mano, chiusero gli occhi, contarono fino a dieci e...aperti gli occhi si ritrovarono all’interno dell’altra stanza.
Ce l’avevano fatta! Si abbracciarono, ridevano finalmente felici. Che il maleficio del nipote fosse stato tutto un bluff?
Ormai fiduciosi, provarono ognuno per conto proprio. Era bello avere ancora stima in se stessi.
Prepararono poi un cartello pubblicitario proprio all’entrata del castello che diceva così: “Venite a trovarci, rimarrete sorpresi. Sarete accolti da due veri e autentici fantasmi!”
Così, attratti da quel cartello cominciarono ad arrivare nuovi clienti.
I signori Coleman davano subito il benvenuto e una dimostrazione di chi fossero realmente, passando attraverso la grande vetrata chiusa, aprendola poi per far entrare i clienti.
Ci fu un veloce passaparola. Era così folle l’idea di parlare direttamente con due veri fantasmi che le persone prenotavano ormai con largo anticipo anche solo per passare una sola notte al castello.
Ma qualcosa impensieriva i coniugi Coleman. Non erano tanto le chiacchiere maligne dei proprietari degli altri castelli che si trovavano nelle vicinanze. Quelle erano bazzecole per loro, anzi… Loro, i Coleman, sapevano bene chi era vissuto in quei castelli, mentre erano in vita due secoli prima. Ce n’era uno in particolare che distava pochi chilometri dalla loro proprietà, di cui conoscevano vita, morte e miracoli. Era il castello del conte Roger Harris, Il caro conte, era stato un grande amico di George Coleman e a lui aveva affidato i suoi dubbi e i suoi timori oltre che i suoi segreti.
Il castello era stato venduto, ma continuava a mantenere lo stemma degli Harris. I fantasmi in quel maniero non si erano mai visti, eppure, ai Coleman era giunta voce che i proprietari, avevano messo in guardia i propri clienti, screditando il castello dei Coleman. Questo non era leale, ma i problemi dei Coleman, erano altri. In quel periodo avevano a che fare con le imminenti feste natalizie. I loro ospiti sembrava si fossero messi d’accordo sul voler festeggiare il Natale al castello. Non ci sarebbe stato nessun problema, sennonché qualcuno iniziò a protestare per l’orario serale riguardante la vigilia di Natale. “Signor Coleman” disse il loro più illustre ospite, nonché omonimo del defunto Roger Harris: “Signor Coleman, devo dedurre che qui al castello vige una regola ferrea persino per la notte più bella che ci sia? Forse per voi non è importante, ma per me e la mia famiglia, lo è. Sarebbe un vero peccato dover rinunciare a soggiornare al castello in quel periodo. Sinceramente io potrei anche farne a meno ma… è una promessa che ho fatto alle mie gemelline e non posso minimamente pensare di deluderle. Fareste un’eccezione per la notte di Natale? Ci darete l’opportunità di festeggiare come si deve? Con un grande albero, con i regali che apriremo rigorosamente a mezzanotte?”
George Coleman e sua moglie Sylvia erano ammutoliti. Non potevano permettersi di perdere un cliente così importante. Improvvisamente i coniugi Coleman, ripensarono al conte Harris. Probabilmente il loro cliente nulla aveva a che fare col vecchio amico di George, ma quell’omonimia, aveva riportato in superficie ricordi lontani, di quando ancora ragazzi, George e Roger, andavano alle feste natalizie assieme, ed era stato proprio ad una di quelle sfarzose feste dell’epoca, che George aveva incontrato Sylvia, giovane e bella ereditiera ammirata da tutti, ma che invece aveva visto negli occhi del prestante George, tenerezza, bontà e sicurezza. Così, aveva scelto lui, tra i suoi tanti pretendenti. Quello era stato un Natale magico. Quando George, tornando al presente aveva guardato negli occhi sua moglie Sylvia, aveva capito che anche lei era tornata indietro nel tempo. Era vero che ormai godevano di una discreta fama, ma… cosa sarebbe successo se il signor Harris non fosse stato accontentato? Come avrebbe reagito? Si sarebbe limitato a non tornare più da loro o avrebbe fatto anche una spietata campagna denigratoria? Avrebbe festeggiato la vigilia dalla concorrenza? I signori Coleman erano davvero disperati. E intanto, mancava poco più di un mese al Natale.
Harris… Poteva essere benissimo una coincidenza. Una di quelle cose buffe che accadono ogni tanto e a cui non sai dare una spiegazione. Roger Harris, era soltanto un omonimo che nulla aveva a che fare col suo antenato, morto ormai due secoli prima. Eppure… era un’idea assurda ma… e se il signor Harris fosse a sua insaputa un discendente del vecchio amico di George Coleman? Quell’idea cominciava a prendere forma nella mente di George che ne parlò a Sylvia. E anche se fosse stato così, le cose non cambiavano di un millimetro, anzi… era un motivo in più per accontentare il signor Harris e la sua famiglia. Avevano visto che c’era voluto un po’ d’impegno, ma alla fine erano riusciti a scalfire la loro vecchia ruggine per tornare a essere due veri fantasmi. Ma che fare contro il maleficio di quel nipote ingrato?
Ogni sera arrivate le dieci, tutto il castello piombava nel silenzio più totale. Una sera in cui non c’erano ospiti, George e Sylvia, decisero di cenare a tarda ora. Procrastinarono fino alle nove. Prepararono pietanze a base di carne e verdure cotte, e al posto della solita acqua, misero in tavola, una bottiglia di un frizzante vino rosso. Quando George versò il vino nei due calici di cristallo, i due fantasmi, fecero un brindisi. “Alla nostra prossima vigilia di Natale e alla cena con gli Harris!” Scolarono il vino e ne versarono dell’altro. Era una trasgressione la loro, perché erano secoli che non toccavano un goccio di quel nettare delizioso. Improvvisamente la stanza iniziò a girare attorno a loro, e così, senza nessun motivo apparente, iniziarono a ridere. Ridevano così forte che non riuscivano a controllarsi. Quando sentirono i rintocchi, si zittirono all’istante. Ne contarono undici, questo significava che era già passata un’ora da quando il vecchio pendolo aveva annunciato le dieci, orario in cui i coniugi Coleman avrebbero già dovuto essere a letto, invece erano ancora svegli e decisi a esserlo almeno per un’altra ora. Erano così eccitati felici ed increduli, che non si accorsero subito dell’uomo che sedeva a capo tavola. Quando lo videro, impallidirono zittendosi all’istante. “Non potete trasgredire a un mio ordine senza pagarne le conseguenze cari zietti miei.” Era proprio lui, il perfido nipote che aveva lanciato loro la maledizione del sonno. George si riprese quasi subito: “Che piacere vederti Arthur. Non dirmi che anche tu sei uno spiritello notturno.”
“Oh zio George. Devo ammettere che vi ammiro. Avete saputo trarre il meglio anche da una situazione negativa. Ma… a tutto c’è un limite. A quest’ora dovreste dormire profondamente e non sghignazzare come donnette isteriche.”
Sylvia che era rimasta in silenzio, cercò di dimenticare che quello che avevano davanti era stato il loro assassino. Volle ricordare invece quel piccolo Arthur che loro avevano amorevolmente preso in casa dopo la morte dei suoi genitori. Così, si rivolse a lui e disse: “Io e George vorremmo accontentare un nostro caro cliente a cui piacerebbe festeggiare proprio qui da noi la vigilia di Natale. Come sai, in quel giorno, si rimane alzati fino alla mezzanotte per aprire i regali e augurarsi buon Natale. Io e tuo zio oggi abbiamo provato a fare un esperimento. Al nostro cliente piacerebbe tanto che facessimo parte della loro tavola quella sera, ma se ci addormentiamo alle dieci, sarà impossibile accontentarlo. Non vorremmo perderlo. Ti prego Arthur, concedici questo favore, soltanto per un giorno.” Il silenzio calò su di loro, poi Arthur parlò: “Sapete perché vi ho uccisi ben due secoli fa?” Arthur non aspettò una loro risposta, invece proseguì dicendo: “Non volevo più rendere conto a voi di quello che facevo o di quello che non facevo. Questo è il motivo ufficiale. Il perfido nipote che colpisce a morte i suoi due benefattori. La realtà, miei cari, è che vi odiavo. Soffrivo perché avrei voluto che moriste voi e non i miei genitori. A niente valse il vostro buon cuore nei miei confronti. Più mi amavate, più io vi odiavo, finché un giorno… un triste giorno, ho deciso di uccidervi e lanciarvi la maledizione. Ma… devo ammetterlo, avete saputo cavarvela, ho apprezzato la vostra caparbietà. In questi due secoli mi sono accorto che la gente è rimasta la stessa, c’è invidia, gelosia, cattiveria, ma chi è buono e sincero come voi, merita una seconda chance. Perciò, cari zietti, ho deciso di aiutarvi. Toglierò l’incantesimo solo per quella sera, solo a un patto: io supervisionerò sotto forma di maggiordomo.” I due coniugi non sapevano se essere felici per questi nuovi sviluppi, oppure preoccuparsene. Dopotutto, la causa della loro morte era lì presente assieme a loro. Però… chissà… forse dopo due secoli aveva fatto giudizio? Era rinsavito? Non aveva chiesto loro perdono, ma era sembrato sincero.
I Coleman decisero di accettare, d’altra parte, che altro avrebbero potuto fare?
Seguì un periodo strano lì al castello con Arthur tra i piedi.
Il nipote infatti, aveva preso sul serio il suo ruolo di maggiordomo e pareva addirittura che gli piacesse intrattenersi con gli zii dopo cena, così, le sere diventavano ogni volta più lunghe. Sembrava che Arthur avesse in qualche modo modificato la sua sentenza verso i suoi poveri zii. C’era qualcosa di non detto tra loro che aleggiava nell’aria. Come l’aspetto ancora giovane di Arthur. Anche lui era stato ucciso? Probabile. George ne era convinto, ricordando il modo in cui il giovane Arthur sprecava la sua vita due secoli prima. Ma in qualche modo, i coniugi Coleman decisero di non indagare. D’altra parte, c’erano altre cose da discutere e da organizzare in quel periodo. Una cosa che sorprese i coniugi Coleman fu quella di scoprirsi nottambuli. Perfino a tarda sera erano ancora lì a discutere sugli addobbi da preparare. Era come se una nuova forza si fosse impossessata di loro. Si sentirono estremamente emozionati quando un grande albero venne posizionato a fianco della hall in modo che tutti lo potessero ammirare. I coniugi Coleman non stavano nella pelle dalla contentezza. Davvero l’atmosfera natalizia poteva far diventare buoni anche gli spiritelli malvagi come Arthur? Verso l’imbrunire della vigilia, la famiglia Harris fece il suo ingresso al castello. Il capofamiglia: Roger, precedette tutti seguito dalla figlia Virginia, la loro primogenita di sedici anni. Le gemelle Nadia e Penelope, procedevano con aria distratta, scambiandosi sguardi d’intesa. Sembravano le meno interessate a tutto quel sfavillio, cosa assai strana, visto che il loro padre sembrava avesse fatto tutto ciò proprio per loro che di anni ne avevano nove. Infine entrò la moglie Judith con in braccio l’ultimo nato, il piccolo Paul di poco più di un anno. “Una famigliola numerosa!” pensò Arthur tra sé. Per un attimo, i suoi occhi si posarono su quelli della signora Harris. Non poteva farci niente. Malgrado fosse un fantasma, era ancora succube del fascino femminile. Quella donna era piacente e soprattutto aveva classe, anche se il suo sguardo tradiva una certa stanchezza. Il piccoletto era avvinghiato al collo della madre, ma si era girato di scatto nella direzione del maggiordomo. Arthur distolse lo sguardo ma continuava a sentire quegli occhi penetranti addosso. “Paul Harris…. Sei forse tornato nelle sembianze di un poppante?” Arthur si sentì ridicolo. Eppure, non riusciva a concentrarsi sui suoi compiti.
Paul Harris era stato il suo rivale da sempre, eppure erano cresciuti come gemelli. Erano nati lo stesso giorno, dello stesso anno a pochi minuti l’uno dall’altro. Lo zio era amico fraterno del padre di Paul. Tutto andava bene per i Coleman e gli Harris. George e il fratello Gregory, si erano sposati per amore. L’unico cruccio, riguardava zia Sylvia che non riusciva a rimanere incinta. Arthur non se ne curava, aveva Paul come amico, non si sentiva affatto solo. Fu un giorno di primavera che tutto precipitò. Un agguato, dei predoni, un assalto alla carrozza. I genitori di Arthur furono lasciati agonizzanti a terra. Quando George arrivò sul posto, erano già morti.
Avrebbero dovuto esserci lui e Sylvia in quella carrozza, poi, all’ultimo momento, c’era stato un contrordine, così, lui era sopravvissuto e suo fratello era morto assieme alla moglie. Paul Harris era stato molto vicino all’amico, ma quella doppia disgrazia, aveva tirato fuori aspetti del suo carattere, che Arthur non sapeva di avere. Tutti erano premurosi e gentili con lui, ma la rabbia che aveva in corpo, non gli faceva apprezzare gli sforzi sinceri degli altri. Ormai erano passati due secoli, eppure gli occhi del piccolo Harris erano ipnotici, era come se gli aprissero una finestra nel passato e per la prima volta, sentì venir meno le forze. Aveva assassinato gli zii. Non era diverso da chi aveva colpito a morte i suoi genitori.
Arthur cercò di mascherare il suo turbamento. Davvero la sua anima si stava purificando dopo così tanto tempo? E chi era quel bambino. Era forse la reincarnazione del suo vecchio amico Paul? Lo zio George lo stava osservando. Distolse lo sguardo e tornò in cucina. Non doveva e non voleva farsi coinvolgere emotivamente. Perché i suoi genitori non erano diventati anche loro dei fantasmi? D’improvviso Arthur sentì un fruscio. Si voltò di scatto frastornato, ma quando vide una delle gemelline Harris, si riscosse. La bambina lo fissava incuriosita, poi gli tese una mano e gli porse un cioccolatino sorridendo e scappò via.
Cosa gli stava succedendo? L’arrivo di quella famiglia lo aveva turbato. Gli mancava il suo tempo, lo scalpitio dei cavalli, le signore con i loro abiti lunghi, le feste a palazzo. Le sale per soli uomini dove fumavano e parlavano di politica e di donne. Quella era la sua vita, passata tra agi e vizi. Tra prime a teatro e battute di caccia. Paul era l’intellettuale, lui era il fannullone. Paul aveva trovato moglie, lui frequentava i bordelli di classe. Ma erano amici, si volevano bene. D’un tratto sentì raggelarsi il sangue. Come poteva essersi dimenticato di lei… Virginia Harris, sorella di Paul, più vecchia di lui di alcuni anni. Arthur dovette appoggiarsi a una sedia. No, non poteva essere. Eppure quei due fratelli portavano gli stessi nomi dei suoi amici vissuti duecento anni prima. Virginia lo aveva sempre trattato con sufficienza. Bella e sofisticata, non badava a lui che invece era pazzo di lei. Tutte le sue speranze si erano infrante quando seppe da Paul che Virginia si sarebbe sposata. Lei era raggiante, lo era anche quando aspettava un figlio. Arthur non la vedeva quasi più. Poi, un giorno arrivò la notizia che mai avrebbe voluto sentire. Virginia era morta di parto dando alla luce due gemelle. Man mano che i ricordi venivano a galla, Arthur sentiva di vivere dentro a un incubo. Chi era davvero quella famiglia in sala da pranzo? E perché volevano festeggiare il Natale proprio lì al castello? Era solo un gioco del destino? Se così fosse stato, le coincidenze erano troppe anche se qui, le due gemelle Harris, erano sorelle di Virginia e non le sue figlie. E quel bambino, Paul… era ancora troppo piccolo per poter fare le veci del suo lontano amico. A dire il vero, dopo la prematura scomparsa di Virginia, lui e Paul si videro sempre meno. Non seppe mai i nomi delle due gemelline che furono mandate a vivere con dei lontani parenti senza figli. All’improvviso comparve sulla soglia zia Sylvia che vedendolo assorto nei suoi pensieri disse: “Arthur… qualcosa non va?” Invece di rispondere le chiese: “Dimmi zia, come fai a tollerarmi dopo tutto ciò che ho fatto a te e allo zio.” Sylvia gli sorrise, un sorriso dolce e malinconico allo stesso tempo, poi disse: “Ti ho perdonato Arthur, ed è quello che dovresti fare anche tu: perdonarti. Ciò che è stato non si può cambiare, ma ciò che dovrà venire, be’ quello è tutto da scrivere anche se noi siamo solo dei fantasmi.” Arthur d’impulso chiese: “Te lo ricordi il mio vecchio amico Paul Harris?” La zia annuì all’istante, poi disse: “Ho capito a cosa ti riferisci nipote mio. Non è altro che una coincidenza, anche se…” “Anche se?” Ripeté Arthur. “Io e lo zio ne abbiamo discusso tra noi.” Continuò Sylvia Coleman. “Tutti e quattro i fratelli, hanno nomi che riportano alla famiglia Harris, cinque, se si conta il capostipite… Roger. Le figlie di Virginia si chiamavano Penelope e Nadia.”
Arthur deglutì e si sentì ancora una volta venir meno. Poi Sylvia riprese a parlare e lui cercò di riscuotersi. “Senti Arthur, ti consiglio di non pensarci. Probabilmente è solo una bizzarra coincidenza. Ero passata invece per dirti che mi sono permessa di chiamare una ragazza per aiutarmi in questa occasione. Io e tuo zio gradiremmo averti a cena con tutti noi stasera. Saremo felici di festeggiare la vigilia di Natale anche assieme a te.” Arthur era sul punto di mettersi a piangere. L’indomani gli zii sarebbero ripiombati nella maledizione che lui stesso aveva inferto loro tanto tempo prima, eppure lo volevano a tavola assieme a loro. Aveva un groppo alla gola e non riusciva a parlare, si sentì sollevato perciò quando Sylvia disse: “Sarà magnifico stare tutti assieme. Inizieremo a cenare alle nove in punto. Sii puntuale caro.”
La grande tavola, era impeccabilmente apparecchiata. La famiglia Harris si stava accomodando seguendo ognuno il proprio segnaposto. Arthur li sbirciava senza essere visto. I suoi occhi si posarono su quelli di Virginia. La ragazza si era cambiata d’abito. Ad Arthur parve una visione di quanto era bella. In quel momento maledisse la sua condizione di fantasma. Virginia alzò lo sguardo e i loro occhi si incontrarono per un attimo. Ormai mancavano solo pochi minuti all’inizio della cena. Quando i coniugi Coleman comparvero, tutta la famiglia Harris si alzò in piedi e li applaudirono. George e Sylvia Coleman, parvero sorpresi da quell’affetto sincero che veniva loro mostrato. Arthur aveva seguito quella scena sempre più confuso. Se solo quella famiglia non si fosse chiamata Harris… e se solo non ci fossero stati gli occhi di quel bambino a scrutarlo come se cercasse di leggergli dentro quella sua anima corrotta e macchiata del sangue di vite innocenti… Quando tutti furono accomodati, iniziarono ad arrivare le prime portate. Se c’era una cosa che ad Arthur non era mai mancata, era la sua eleganza innata, questa non faceva eccezione quando si trovava a tavola. Il suo posto era a capotavola. Dalla sua postazione, poteva osservare tutti. Il signor Harris, confabulava amabilmente con lo zio George, mentre la moglie, se non era occupata col piccolo Paul, chiacchierava con Sylvia. Le due gemelle si scambiavano occhiatine d’intesa sghignazzando per chissà cosa. L’unica che sembrava a disagio, era lei: Virginia. Era seduta all’altra estremità del tavolo accanto al padre. Ad un certo punto, Arthur la vide alzarsi e con disinvoltura andare a sedersi sull’unica sedia rimasta vuota, quella che si trovava proprio accanto a lui. Arthur cominciò ad agitarsi, ma la ragazza con tutta naturalezza disse: “Ho chiesto il permesso a mio padre per venire a sedermi qua accanto a te. Eravamo gli unici a non avere qualcuno con cui parlare così ho pensato… be’ insomma… ho pensato di fare io il primo passo. A proposito… non ci hanno ancora presentati. Io sono Virginia Harris e tu sei…” Arthur era rimasto incantato a guardare quella creatura sublime che voleva comunicare con lui, sì, proprio con lui. Arthur fece per parlare quando Virginia riprese: “Hai uno sguardo ipnotico” “Arthur” disse lui “Il mio nome è Arthur” In pochi minuti, Virginia gli raccontò così tante cose, che ad Arthur parve di conoscerla da sempre. Non c’era nessuna affinità con la Virginia di cui si era perdutamente innamorato due secoli prima, solo il nome e cognome le accomunavano. Lo stesso, lui si beava del suo dolce sguardo. Questa nuova Virginia, si interessava a lui. Non era stata forse lei ad alzarsi dalla sua sedia, per andare a sedersi proprio accanto a lui? E non era stata sempre lei a voler conversare con lui come se fossero vecchi amici o qualcosa di più? D’improvviso la ragazza disse: “Questa cena sta cominciando ad annoiarmi. Ti va di fare una passeggiata in giardino?” Arthur avrebbe voluto dire di sì, ma proprio in quel momento incontrò lo sguardo di Paul e sentì dei brividi attraversargli tutto il corpo, così, disse più a se stresso che alla ragazza: “Fa abbastanza freddo fuori” Virginia era delusa, lo si capiva da quel suo sguardo triste e rassegnato. “E poi… tra un po’ si apriranno i regali e…” Ma Virginia non sembrava interessata. Si alzò di scatto e corse velocemente verso le scale. Tutti si voltarono. Zia Sylvia, più sveglia che mai, guardava il suo unico nipote con fare interrogativo. Arthur avrebbe voluto dirle che lui stavolta non aveva fatto proprio niente, quando la signora Harris si alzò dalla sua sedia e andò a sedersi vicino a lui, in quella stessa sedia che aveva occupato solo pochi attimi prima Virginia. La signora non era sola, con lei c’era anche il piccolo Paul. La donna gli si avvicinò e gli sussurrò: “Non si dia preoccupazioni per la mia bambina, Virginia si è presa una cotta per lei. Cosa vuole… è così giovane e romantica… Ha preso da me, non c’è dubbio.” Arthur era sbalordito. La donna si passava il bambino da una coscia all’altra, e mentre lo faceva, l’abito le si alzava ogni volta di più, finché disse: “Le chiedo un favore Arthur. Devo andare un attimo alla toilette, potrebbe tenermi gentilmente il bambino? Stia tranquillo, il mio Paul indossa il pannolino, in più… ha già fatto la pipì.” Ad Arthur prese il panico. Come poteva tenersi sulle ginocchia il suo vecchio amico Paul? Inoltre… cosa avrebbe potuto dirgli per intrattenerlo? Raccontargli qualche aneddoto che li riguardava? La signora Harris si alzò e gli mise il bambino in braccio. Arthur improvvisamente sentì il suo corpo vibrare. Poteva essere solo che suggestione, nient’altro che suggestione. Il bambino era molto docile, aveva anche un buon profumo tra i capelli, sembrava camomilla. Ad Arthur venne da carezzarglieli quei capelli castano chiari fini e soffici. Tutto sembrava andar bene, quando il bambino si girò verso di lui. Di nuovo quegli occhi enormi e profondi che lo scrutavano. D’un tratto Arthur fu sopraffatto dall’emozione, strinse forte il bambino a sé e disse: “Paul, amico mio. Sto cambiando Paul, te lo prometto, stavolta sta succedendo sul serio.” Il brusio nella stanza cessò. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Solo allora Arthur si rese conto di aver parlato ad alta voce e di essersi rivolto a un bambino così piccolo. Sentì zia Sylvia dire: “Non trovate anche voi che l’atmosfera natalizia sia tangibile in questa stanza?” Non era chiaro se quella frase voleva essere solo un modo per distogliere l’attenzione da Arthur, o se invece fosse stata buttata lì, giusto per rimarcare la sua felicità nel vedere il nipote abbracciare il piccolo Paul con affetto. Il signor Harris, probabilmente, optò per la prima ipotesi, visto che distolse lo sguardo da Arthur e iniziò a confabulare con Sylvia. Arthur lo sentì dire: “Sono d’accordo mia cara signora… siete riusciti a ricreare un’atmosfera assolutamente magica.” Judith Harris, tornò seguita a ruota dalla figlia Virginia. La ragazza rimase in piedi vicino alla madre che finalmente si sedette accanto ad Arthur. A guardarle da vicino, sembravano quasi sorelle. Erano davvero belle. Arthur cercò di non pensare a ciò che avrebbe fatto se solo fosse stato due secoli prima. Provò a immaginarle vestite con gli abiti di quel tempo. Alla fine convenne con se stesso, che forse… gli piacevano di più coi loro vestiti attuali. La signora Harris lo stava guardando perplessa, poi, disse: “Caro Arthur, c’è qualcosa che non va? Ho come la sensazione che la vostra mente stia vagando in tutt’altra direzione.” Non ottenendo risposta proseguì: “Comunque… vi ringrazio per aver tenuto il piccolo Paul, siete stato bravo. Mio figlio sa farsi sentire, soprattutto con gli estranei. Con voi invece… sembrate davvero in sintonia, come vecchi amici.”
Quell’ultima frase mandò in tilt il cervello di Arthur. Dovette raccogliere con forza tutto il suo controllo per non raccontare a Judith chi fosse stato il suo grande amico Paul Harris. Invece, se ne uscì con una frase fatta come… “E’ stato un vero piacere per me occuparmi di vostro figlio signora Harris. E’ stato semplice, è un bambino molto buono." Si fermò lì altrimenti avrebbe iniziato a elencare le qualità del suo amico Paul raccontando magari, anche qualche avventura vissuta assieme.
Ma la serata non era terminata. Roger Harris si alzò in piedi e con aria solenne fece il suo discorso di ringraziamento alla famiglia Coleman. Arthur era stanco di tutto quel parlare mieloso. Non che Roger non le pensasse quelle cose, lo si capiva dal suo tono, e da quel suo sguardo rapito, assolutamente sincero. Arthur sbirciò in direzione di Judith. “Forse mi sbaglio” pensò “ma a me sembra che la tua cara mogliettina ne abbia abbastanza di te.” Ne ebbe la conferma quando la donna gli passò velocemente un bigliettino con la scusa di alzarsi di nuovo dalla sedia. Era scritto: “Raggiungimi in terrazza” Arthur era combattuto. Poi, vide Judith consegnare il piccolo Paul a una delle gemelle e avviarsi in terrazza.
Era tutto così surreale… Fuori faceva freddo. Si attendeva che nevicasse da un momento all’altro. Judith si era rintanata in un angolino buio e riparato. Per un attimo Arthur pensò di rientrare e far finta di niente, ma poi, la curiosità ebbe la meglio, perciò si avviò a passo svelto verso quella figura che lo stava aspettando. Appena la raggiunse, Judith sospirò così forte che Arthur ne avvertì la tensione, ma subito dopo si sentì frastornato sentendola parlare. La signora Judith Harris infatti disse: “Oh menomale Arthur, sei arrivato. Temevo tu non venissi. Ho visto la tua faccia appena ti ho consegnato il biglietto. Avrai pensato: “Questa qui è tutta matta. Chissà cosa vorrà da me” Credimi Arthur, ho provato ad arrangiarmi da sola ma… ho capito di avere dei limiti. Certe cose meglio farle in due, sei d’accordo?” Arthur era sbigottito. Si era aspettato un approccio ben diverso. Qualcosa del tipo: “Dal primo momento che ho posato i miei occhi suoi tuoi… oppure… Non è soltanto Virginia ad avere una cotta per te. Te ne sei accorto vero?” Judith lo stava osservando, così alla fine Arthur disse: “Suppongo di sì.” Tutto era molto vago. Alla fine la donna disse: “Il fatto è…” Fece una breve pausa poi riprese: “Si tratta di un regalo che ho fatto a mio marito, un regalo che lo riempirà di gioia spero, perché è un’accurata ricerca dei suoi antenati. Credimi Arthur, sono rimasta sconcertata nell’apprendere che Roger proviene da una nobile casata e che la nostra famiglia sembra la fotocopia di quella vissuta due secoli fa.” Ad Arthur venne da tossire, una reazione istintiva che gli procurò questo fastidioso disturbo. Era ormai chiaro che l’interesse della signora Harris non era rivolto verso Arthur, piuttosto, ne aveva visto un possibile aiuto per cosa, ancora questo gli era sconosciuto. Alla fine Arthur disse: “Mi sembra un bel regalo signora Harris” “Oh ti prego Arthur, chiamami Judith. Preferisco un approccio meno formale con gli amici, e noi… lo siamo vero?” Arthur sentì la gola ingrossarsi. La bocca era asciutta, le ultime gocce di saliva si seccarono ascoltando la voce melodiosa di Judith. Alla fine, non senza fatica Arthur disse: “Bene Judith… cosa posso fare io riguardo al regalo che hai fatto a tuo marito?” Lei sorrise. I suoi pensieri, Arthur ne era sicuro, vagavano chissà dove. Forse lui era parte d’essi. Continuando a sorridere, Judith disse: “Oh Arthur! Riconosco che il tuo sguardo è ammaliante, posso capire mia figlia che appena ti ha visto, ne è rimasta colpita. Ma ciò che ti rende perfetto, oltre al tuo aspetto, è la voce. E’ sublime, sognante, suadente. Caro Arthur, hai un dono assolutamente unico. Prendi Roger per esempio. E’ stato facile innamorarsi di lui. Mio marito è la bontà fatta persona, è altruista, per niente snob. Insomma, ha tantissime buone qualità, ma non sono mai riuscita ad accettare la sua voce. Mi dirai che sono frivola. Forse sì, o forse, mi ci sono abituata. Erano anni che non ci pensavo più alla sua voce, fino a stasera. Sentirti parlare, è stato… folgorante, sì, caro Arthur, la tua voce così incantevole, mi ha conquistata. E allora ho pensato: “E se facessi leggere ad Arthur qualche riga del libro che ho scovato e che racconta il passato della famiglia Harris?” Che ne dici Arthur, faresti questo per me?” Leggere? Era solo quello che Judith gli chiedeva di fare? Arthur non sapeva se sentirsi lusingato oppure indignato. Tutti quei complimenti sulla sua voce non erano altro che una semplice richiesta di lettura. Judith lo guardava perplessa. Alla fine Arthur disse: “Bene Judith, se è solo questo che vuoi da me io…” Era troppo tardi. La signora Harris sgranò gli occhi, ma quando sembrava che fosse pronta ad alzare un braccio per schiaffeggiarlo, il viso le si illuminò con un gran sorriso, gli si avvicinò poi disse: “Mio caro Arthur, i figli con Roger sono usciti proprio bene, non trovi? Ma credo” continuò con il viso sempre più vicino al suo: “Credo che se li avessi fatti con te sarebbero venuti anche meglio. Chissà… in una vita futura forse…” D’improvviso emise un gridolino e disse: “Oh guarda Arthur… nevica.” Tutto accadde nella frazione di un secondo. Lui l’attirò a se, le prese il viso tra le mani, e finalmente, le loro bocche si unirono. “Questo, è il mio regalo per te Judith. Buon Natale” “Un regalo bellissimo” disse in un fil di voce la donna, che poi aggiunse: “Sarà sicuramente il più bel regalo di questo straordinario Natale”
Arthur lasciò che Judith rientrasse. Dopo alcuni minuti, sentì che era giunto il momento di fare altrettanto.
“La storia non si può ripetere” pensò Arthur. Dopo due secoli, non era Virginia che aveva preso il suo cuore, ma Judith, sua madre, una donna che era diventata una Harris, per aver sposato Roger. Non c’era nessun appiglio col passato. Arthur non aveva mai conosciuto nessuna Judith, lei era lei e basta. Ancora una volta si maledisse per la sua sorte di fantasma. Eppure… le labbra calde di Judith, solo pochi minuti prima, sarebbero state un piacevole ricordo che lo avrebbe accompagnato nel suo vagare attraverso i secoli. Trovò tutta la famiglia Harris accanto al grande albero di Natale. Nessuno sembrava interessato a lui, almeno in apparenza. George e Sylvia, si stavano unendo a loro proprio in quel momento. George si schiarì la voce, poi disse: “Signori, come a coronamento di una splendida Vigilia, è iniziato a nevicare. La signora Maud vi saluta tutti, ma è scappata a casa per paura che diventi una tormenta assai fastidiosa. Ma noi… siamo qui al sicuro. Felice Natale a tutti voi da me, Sylvia e da nostro nipote Arthur Coleman. Ci fu un applauso generale. Le due gemelle gridarono in coro: “Buon Natale a tutti!” E lì scoppiò la baraonda. Pacchetti che uscivano da chissà dove, venivano passati di mano in mano. Gli Harris si scambiavano doni e risate. A Sylvia piaceva osservare i loro volti gioiosi e spensierati. Il piccolo Paul sonnecchiava dentro a un passeggino, era ancora troppo piccolo per partecipare a quella festa. Era così assorta nell’osservare il bambino, che quasi si spaventò quando Judith le comparve davanti. La donna in un radioso sorriso disse: “Ecco Sylvia, questo è per lei, per averci deliziato in questa magica serata. Buon Natale amica mia” Sylvia rimase esterrefatta. A malapena balbettò un “grazie di cuore” ma le parve che quella frase fatta, non esprimesse appieno i suoi sentimenti, così, continuò: “Cara Judith, non saprei proprio come ricambiare. Mi sento terribilmente impacciata. Io… non ho niente per contraccambiare io…” Judith la fermò con un gesto della mano, poi disse: “Mia cara, lei ha contribuito a donarci questa magnifica serata. Questo è il regalo più bello che potesse fare a me e alla mia famiglia” E come in un tacito accordo, si abbracciarono. Arthur aveva seguito la scena da una certa distanza. Ancora una volta, si maledisse per aver causato così tanto dolore a quella cara donna di nome Sylvia. Gli sarebbe piaciuto scoprire cosa ci fosse all’interno di quel pacchetto, ma decise che non era affar suo. La neve cadeva copiosa sul prato del castello. L’indomani le bambine si sarebbero divertite a fare un bel pupazzo. Arthur stava già immaginando il possibile scenario del giorno dopo, quando vide Judith avvicinarsi a lui, sempre con quel radioso sorriso che illuminava la stanza. Sembrava diversa da quando era entrata lì quel tardo pomeriggio, era come se qualcosa fosse successo, come se lei stessa se ne fosse resa conto solo in quelle ore. I loro occhi si incrociarono. Arthur riusciva a percepire l’intensità oltre quell’iride. Era qualcosa di profondo dove lui era riuscito ad arrivare, non fisicamente, ma intimamente, quello sì. E sapeva che anche lei stava cercando di conoscerlo, solo che l’aveva fatta arrivare solo fino ad un certo punto. La sua anima non era limpida, non poteva rischiare di farla inorridire. Gli piaceva che, andandosene, lo avrebbe ricordato con affetto, con nostalgia, e perché no… con desiderio. Ma una storia tra loro due, non sarebbe mai stata possibile. Eppure… quelle labbra, quell’unico bacio, gli sarebbe tanto piaciuto risentirlo sulle sue labbra così navigate un tempo, ma così sole al presente. Tra loro due ci fu una grande comunicazione e un altrettanto grande conflitto morale. Lei deglutì, poi, con le guance in fiamme disse: “Ti ho portato il libro di cui ti parlavo prima … in terrazza. Ecco vedi, dovresti leggere da qui a… qui” Le mani di lei erano scivolate con apparente naturalezza verso quelle di lui. Un turbinio di emozioni invasero i loro corpi. Ci pensò Nadia, una delle gemelle a riportare Arthur e Judith sulla terra. “Eh mamma” disse la bambina alquanto scocciata “Vieni mamma, Paul deve averne fatta tanta, la puzza è insostenibile sai?" Judith diede un’ultima occhiata ad Arthur che annuì, senza sapere a che cosa stesse annuendo. Vide Judith allontanarsi col piccolo. Quel breve momento di intimità tra loro, sarebbe rimasto unico. Arthur sapeva che la magia era terminata. Se lui non fosse stato quello che era, se lei non fosse stata quello che era, soprattutto sposata e con ben quattro figli… Arthur si costrinse a non pensarci, si focalizzò invece su quello che avrebbe dovuto leggere al marito di Judith. Sperava solo che quel regalo venisse apprezzato da Roger. Nella stanza accanto al grande albero illuminato, l’atmosfera era andata scemando, ognuno era intento a esaminare il proprio regalo. Fu solo quando Judith tornò col piccolo Paul in braccio che l’ambiente sembrò rianimarsi. Lei, bella e sorridente, chiese un minimo di attenzione. Non le servì alzare di molto la voce. Ad Arthur sembrò chiaro come il sole, chi tenesse in mano il timone a casa Harris.
“Caro?” Judith si rivolse con dolcezza verso il marito. Lei ripeté: “Caro? L’amico Arthur qui, darà lettura di qualcosa che potrebbe interessarti. Ti va di ascoltarlo?” Naturalmente quella era una domanda retorica. Non c’erano dubbi su questo. Oltretutto, chi non sarebbe stato curioso? Perfino le gemelline, di solito così disinteressate, si misero sull’attenti, pronte ad ascoltare il giovane Arthur. Virginia era seria. Da quando gli aveva chiesto di uscire assieme in terrazza, non gli aveva più rivolto la parola. Anche zio George e zia Sylvia erano in religioso silenzio, in attesa di sentirlo leggere. Sembravano felici. Arthur provò di nuovo rimorso per ciò che aveva fatto loro. D’improvviso, si rese conto di essere davvero cambiato. “Ciò che è stato, non si può cancellare” pensava, “ma forse, è arrivato il momento di modificare quel maleficio assurdo.” Arthur guardò il suo piccolo uditorio, prese fiato, contò fino a dieci, poi iniziò.
“Si narra che gli Harris siano sempre esistiti. Naturalmente è solo una battuta. Chi tra voi non ha un amico, un conoscente, il suo medico personale, o il suo peggior nemico che di cognome faccia Harris? Ebbene, non sono qui a parlarvi di un Harris qualsiasi. No… qui l’unico ceppo di Harris che ci interessa, è quello del Conte Roger Harris vissuto ben due secoli fa a Londra rimanendovi fino alla sua prima giovinezza, ma poi trasferitosi con tutta la famiglia nello Yorkshire dove all’età di diciannove anni, prese moglie” Arthur sentiva il peso di quel racconto. Roger Harris, il grande amico di suo zio, era davvero antenato dell’uomo che aveva difronte? O Judith aveva preso solo un abbaglio? Arthur riprese a leggere “Dall’unione con Penelope, nacque una figlia di nome Virginia e un maschio di nome Paul. Quest’ultimo si sposò in tarda età, ma fu alquanto prolifico. Purtroppo, negli anni, ci furono dei dissapori tra fratelli. Il penultimo, tal Richard Harris, lasciò la famiglia. Eravamo alla fine degli anni venti del secolo scorso. Richard si dissociò dalla famiglia, ma costruì il suo impero diventando un mercante apprezzato e alquanto ricercato. Richard si sposò con Rachele ed ebbero quattro figli: Leila, Fred, Sarah e Paul. Quest’ultimo, seguì le orme del padre ampliando l’azienda fino a farla diventare il doppio. Le maglierie Harris sono una garanzia. E lo sa bene il figlio di Paul: Roger che ormai da più di venticinque anni, è a capo del colosso Harris and Co. Quindi che dire?. Il ceppo distaccato dei Conti Harris ha dimostrato di saperci fare. In quanto agli altri ci fu una diatriba su a chi andasse il famoso castello di famiglia. Be’, triste a dirsi, oggi quel castello è in mano a persone che nulla hanno a che vedere con quella storia secolare. Qualcuno col pallino del gioco d’azzardo, riuscì a giocarselo e ahimè, a perderlo.”
Quando Arthur terminò la lettura, tutto attorno a lui era silenzio, e il piccolo Paul si era addormentato. Arthur fece un passo verso Judith e le restituì il libro. Lei colse subito l’occasione per lodarlo, disse: “Grazie Arthur, la tua voce, la tua inflessione così perfetta, ha dato alla lettura un valore maggiore di quello che forse realmente è. In quanto a te maritino mio, sono riuscita a scovare questo piccolo libro che parla del ceppo dei conti Harris. Nel leggerlo, troverai alcune similitudini con la nostra famiglia che io ho trovato alquanto bizzarre, ma… non voglio anticiparti nulla. So che a te non interessano le tue origini nobiliari, ma di fatto è grazie al Conte Roger Harris, se tu adesso sei qui con noi.” Ci fu un fragoroso applauso e un timido Roger si prodigò in ringraziamenti. Era arrivato davvero il momento di congedarsi. Tutti si augurarono la buonanotte. Alla fine anche i coniugi Coleman e Arthur, si accinsero ad andare nelle loro stanze. Ma prima di salire le scale, George chiese: “Che ne pensi Arthur? Credi che quel libro dica la verità? Se così fosse, sarei ancora più onorato di aver ospitato nel mio castello un contemporaneo del mio vecchio amico Roger. Arthur aveva ascoltato le parole dello zio e intanto guardava fuori dalla finestra. La neve scendeva ancora copiosa. Chissà se gli Harris sarebbero riusciti a partire il giorno dopo. Quando si girò, vide lo zio ancora lì fermo, aspettava una sua opinione a riguardo. Alla fine Arthur disse: “Che cosa dovrei dire zio? L’unica cosa che mi viene in mente è che quella appena passata, è stata la più bella vigilia di Natale da che ho memoria. Ho conosciuto una bella famiglia a cui mi sono molto affezionato. Quello che ho capito stasera è che se potessi tornare indietro non vi ucciderei più. Buon Natale zio George, Buon Natale zia Sylvia. Domani ci aspetta ancora una lunga giornata di lavoro. Le parole di Arthur, quel nipote così difficile e complicato, fecero venire le lacrime agli occhi agli zii. Quella vigilia era stata davvero unica e i Coleman, andarono finalmente a letto stanchi ma felici.
In quanto ad Arthur l’ultimo pensiero prima di addormentarsi, lo rivolse a Judith. Avrebbe voluto raggiungerla nella stanzetta dove si trovava assieme al figlio Paul, ma sapeva che era meglio togliersi dalla testa quel pensiero. Pensò allo sguardo penetrante del piccolo Paul, a quella sua espressione così seria. Desistette, nonostante l’impulso di alzarsi, era forte. Fuori continuava a nevicare. Rivide loro due, appena qualche ora prima, fuori nel buio di quella terrazza e provò gratitudine perché, per quanto quel sentimento fosse tormentato e struggente, era riuscito a riconoscerlo. Lui, Arthur Coleman, alla fine, aveva capito il valore della parola amore, non soltanto per Judith, ma per gli zii e per il mondo intero. Alla fine si concesse di chiudere gli occhi, e come per magia, sentì un paio di labbra morbide posarsi sulle sue.
Comentarios