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Cartoline dal mondo

Se qualcuno mi chiedesse: “Raccontami la parte più bella del tuo lavoro” non avrei dubbi a rispondere: “La consegna delle cartoline” Già… Mi sembra sia passato un secolo da quando quel cartoncino che proveniva da posti lontani, è pressoché sparito. Sono un portalettere chiamato anche postino e sono prossimo alla pensione. Ho passato quarant’anni a consegnare posta di ogni genere. Nei primi tempi, quando arrivavo nella zona che mi era stata assegnata, trovavo molte massaie a casa. Mi sentivano arrivare e allora uscivano ad aspettarmi sul cortile di casa. Avevo capito che quello era un modo per staccare alcuni minuti da ciò che stavano facendo. Quella, era una zona rurale fatta di campi, nient’altro che campi. I servizi erano pochi, perciò spesso le mogli dovevano attendere l’arrivo dei mariti per poter andare a fare qualche compera in città. C’erano solo pochi chilometri che dividevano queste due realtà e io, giorno dopo giorno, potevo constatarne la diversità. Non c’era un meglio o un peggio. Era solo differente il modo di far passare il tempo.

Fin dagli inizi, avevo compreso che il mio arrivo rappresentava per quella comunità un piacevole momento di evasione. Come se io fossi foriero di buone notizie. Molte di quelle famiglie, avevano parenti lontani, forse figli che avevano preferito tentare la sorte in un Paese straniero. Il mondo correva tra i fili del telefono. Bastava alzare una cornetta, comporre un numero e aspettare che la voce del proprio caro si materializzasse attraverso un’invisibile filo che accorciava le distanze. Ma una lettera… la si poteva conservare per sempre. Quel “Ti voglio bene” scritto alla fine di un resoconto di vita difficile da immaginare per chi non si era mai mosso di lì, diventava prezioso, qualcosa da conservare con cura dentro a un cassetto, rileggendolo quando la nostalgia si faceva sentire, desiderando allora altre parole scritte, altri indizi vitali, altri “Ti voglio bene”. Perciò, al mio arrivo, le donne si trattenevano a parlare con me. Non sempre c’erano le lettere che aspettavano, ma, anche in quei momenti di delusione, c’era la speranza che qualcosa sarebbe arrivato il giorno dopo.

La loro generosità nei miei confronti, mi commuoveva. C’era chi mi offriva un caffè assieme a una fetta di torta appena sfornata, o chi mi donava della frutta a seconda della stagione, appena raccolta dall’albero. Non c’era giorno che non andassi a casa con qualche prelibatezza. A quel tempo vivevo ancora assieme ai miei genitori. Ricordo che mia madre, ancora prima che entrassi in casa chiedeva: “E oggi cosa ti hanno dato i tuoi “pazienti” ? Già, secondo lei quelle persone erano i miei pazienti. All’inizio le ribattevo che io non avevo nessun paziente perché non ero un medico. Allora lei sorrideva e diceva: “Ti conosco Michele… Ti conosco”.

Ero io che non riconoscevo più lei. Preoccupato, ne parlai con mio padre che disse semplicemente: “Tua madre non è malata, anzi, ha solo dato un nome alle numerose facce a lei sconosciute di cui tu racconti a tavola. Lei si è fatta un’idea ben precisa sul tipo di rapporto che si è andato instaurando in questi tuoi primi anni di lavoro”. Stavo cominciando a capire, ma mio padre volle essere ancora più chiaro: “Per loro tu sei un po’ come uno psicologo, una persona fidata a cui confidare gioie e frustrazioni anche senza bisogno di un lettino su cui stendersi. Insomma, io e tua madre abbiamo compreso che tu sei stato accettato a pieno titolo da quella gente di campagna. E che, grazie al tuo accattivante sorriso, quelle donne si sentono libere di esprimersi. Ecco perché tua madre li chiama bonariamente tuoi pazienti”. Ciò che mi aveva detto mio padre, non faceva una piega. Non avevo mai guardato la cosa da quel particolare punto di vista. Dopotutto, ero solo un portalettere, uno che arrivava facendo il giro del territorio. Portavo lettere, bollette da pagare, qualche volta consegnavo telegrammi. Ma ogni volta, sembrava che quella gente volesse dividere con me ciò che di bello o di brutto apprendevano in quel momento. Una volta una signora di cui non ricordo nemmeno il nome, aprì velocemente la lettera che le avevo portato. Mi pregò di rimanere lì accanto a lei mentre leggeva velocemente il contenuto della missiva. Presi quasi paura quando la vidi strabuzzare gli occhi e dire: “No, non è possibile, non ci credo. Oh zio Angelo!” Cominciavo a sentirmi in imbarazzo. Inoltre non capivo se ciò che aveva letto fosse qualcosa di bello o brutto. Cercai con tatto di scuoterla. Dopotutto avevo altra posta da consegnare. Stavo per dirle che mi spiaceva, qualunque cosa fosse, quando lei disse: “Zio Angelo se n’è andato serenamente. Aveva quasi cento anni. Lo ricordo ancora mentre io bambina, lo salutavo mentre se ne andava a cercar fortuna in Argentina. A quanto pare c’è riuscito. Mi ha lasciato unica erede di tutto il suo patrimonio”. Dopo qualche mese lei e il marito se ne andarono in Argentina cambiando per sempre il corso della loro vita. Ma di storie, ne ho sentite parecchie in tanti anni di carriera. Non ero un prete o uno psicologo e non ero in grado di risolvere i loro problemi, ma non mancavo mai di chiedere: “Come va oggi signora Maria?” Forse era solo questo che bastava: un genuino interesse per la loro vita.

I mariti facevano un duro lavoro nei campi. Raramente ho incontrato alcuni di loro. Ogni volta che tornavo in città, mi chiedevo se quella vita di campagna fosse più piena della mia. Quando percorrevo quelle strade spesso piene di buche e pozzanghere dopo un acquazzone, mi sorprendevo ad ascoltare ciò che la campagna mi offriva. I suoi rumori ormai li conoscevo bene come i trattori nei campi. Ma c’erano anche il cinguettio degli uccelli. E, a seconda delle stagioni, prati immensi pieni di papaveri o girasoli. La vista di quelle distese colorate non è mai diventata un’abitudine, l’ho sempre accolta come un regalo e una gioia per i miei occhi.

Ci fu un periodo, esattamente otto anni dopo l’inizio del mio lavoro, che sentii quella gente più vicina a me di qualsiasi amico che reputassi tale. La mia fidanzata storica, colei che avevo baciato la prima volta al cinema e che, da allora era diventata la mia ragazza, mi aveva lasciato. Io e Giuliana, avevamo pianificato tutto per poterci sposare. Eravamo felici, almeno io pensavo lo fosse anche lei. Altrimenti, perché darsi la briga di organizzare un matrimonio in grande stile? Un giorno mi confessò candidamente che, dopo aver indossato l’abito bianco come prova, qualcosa di strano scattò in lei tanto da farla riflettere seriamente sul passo che stava per fare. “Ho bisogno di tempo” disse, simulando un sorriso forzato. Ma io, in quel momento capii che dodici anni erano stati più che sufficienti per comprendere se noi due potevamo andar bene come marito e moglie. Fui schietto con lei. Malgrado soffrissi preferii dirglielo in faccia. Così non ci fu nessuna festa, ma solo un periodo di stress e rimpianti. “Rimaniamo buoni amici” suggerì Giuliana. Io acconsentii, ma non volli più chiamarla e lei fece altrettanto. Oggi, ogni tanto la vedo passeggiare coi nipoti. Alla fine, in sei mesi si fidanzò e si sposò. Mia madre andò su tutte le furie. Per lei Giuliana era stata come una figlia. Si era sentita tradita da quella ragazza che, a parer suo, non era stata sincera con me. Ma io non le portavo rancore. Avrei dovuto capirlo che non eravamo compatibili. Era andato tutto bene fino a quando ero stato assunto dalle poste come portalettere. Spesso lei mi raccomandava di provare a fare altri concorsi. Mi diceva: “Davvero ti accontenti di questo? Mi piacerebbe che tu fossi più ambizioso. Hai così tante potenzialità…” Lei faceva la segretaria in uno studio di avvocati, forse non ero più adeguato ai suoi standard. Col tempo, riflettendo a mente fredda, dovetti ammettere che il mio mestiere non l’aveva mai realmente interessata. Lei aspirava a un partito migliore del mio, infatti, sposò un avvocato. Non certo un principe del foro, ma aveva uno studio ben avviato grazie al padre e allo zio. Lei lavorava per conto di uno studio concorrente, ma questo non impedì loro di convolare a nozze. Economicamente parlando, Giuliana andò in meglio. Della sua vita privata, non me ne sono più voluto occupare, però so che divorziò quando i suoi due figli furono adolescenti.

Ripensando a quel periodo transitorio, in cui il ricordo di Giuliana era ancora vivo dentro di me, le donne a cui portavo la posta, mi scrutavano cercando di carpire il mio stato emotivo. Per mesi mi avevano chiesto notizie sul mio prossimo matrimonio, così fui costretto a dar loro la triste notizia.

C’era Gianna per esempio, una donna dalle forme generose, che mi dava puntualmente delle uova. Mi diceva: “Mi raccomando Michele, mangia queste uova che sono freschissime. Vedrai, ti aiuteranno a dimenticare quella lì”. Io la ringraziavo e le sorridevo. la figura di Giuliana sbiadì rapidamente dopo che seppi del suo matrimonio lampo con l’avvocato. Mi convinsi che era stato un bene essere andati ognuno per la propria strada anche perché nel mio cammino, a un certo punto, apparve Valentina. Ci eravamo conosciuti un giorno in cui ero rimasto a terra col motorino. A quel tempo non c’erano i telefonini e io dovevo tornare indietro per consegnare la posta inevasa. La ragazza era in macchina, stava percorrendo il territorio dove io ero appena stato. Si affacciò dal finestrino e disse: “Oh! Il famoso postino di nonna Gianna!” Io non avevo tanto tempo da dedicarle. Ero sudato mentre spingevo il motorino, ma poi la ragazza disse: “Ma cosa ti è successo? Problemi al motore?” Solo in quel momento alzai gli occhi su di lei. Aveva un viso simpatico con una frangetta di capelli castani che le ricadeva sugli occhi. Io mi fermai e dissi: “No, in realtà manca solo una pompa di benzina da queste parti”. Lei non si scompose e disse: “Oh, ma se è solo per questo, ti aiuto io. Ho giusto una tanica in macchina. Tu aspettami qua che torno subito”. Senza attendere una mia risposta o un grazie, girò velocemente la macchina e scomparve dalla mia vista. Nemmeno dieci minuti dopo, la ragazza fu di ritorno. Riempimmo il serbatoio e il motorino era di nuovo pronto a partire. Non volle nemmeno una lira. Disse solo: “Mia nonna e la piccola comunità che tu visiti ogni giorno, ti sono grati per la persona che sei. Sono solo dispiaciuti ogni volta che tu vai in ferie o quando sei influenzato”. Le sorrisi e dissi: “Sono io a essere in debito con loro. In questi anni ho imparato molto da queste donne che aiutano i loro mariti nei campi e accudiscono la loro casa e i figli”. Prima di andarmene, presi il coraggio necessario per invitarla a bere qualcosa assieme. Lei accettò. Quello non fu il nostro unico appuntamento. Valentina e io ci sposammo dopo neanche un anno dal nostro primo casuale incontro. Tutto sommato mi era successa la stessa cosa capitata a Giuliana.

Così, ereditai Gianna come nonna, ma soprattutto, quel posto che mi era stato assegnato fin dall’inizio, era diventato anche casa. Spesso io e Valentina facevamo visita a Gianna e Antonio, suo marito aiutandoli in ciò di cui avevano più bisogno. Tra nonni e nipote, c’era un feeling perfetto, cosa che io non avevo mai provato. I miei nonni paterni vivevano fuori regione e i genitori di mia madre non erano in buoni rapporti con lei. Perciò, ero ben felice di sperimentare queste nuove sensazioni. Il calore di un abbraccio sincero mi riempiva il cuore di gratitudine e ringraziavo ogni giorno il fato che mi aveva concesso di incontrare Valentina e gli abitanti di quella zona rurale così poco valorizzata.

Perciò, dopo aver riflettuto un po’di più su quale sia stata la cosa più bella del mio lavoro, potrei dire che la consegna delle cartoline, era solo una parte d’essa. E anche se negli anni questa zona è stata modificata, alcuni posti sono rimasti com’erano. Oggi, molti conoscono questi luoghi per gli agriturismi cresciuti come funghi, alcuni trasformati in resort di lusso. Io e Valentina, ogni tanto ci andiamo. Sono stati i figli di quelle donne a dare più valore alla zona. Hanno guardato in avanti pensando di cavalcare l’onda, come hanno fatto molti ristrutturando case trasformate in B&B. E proprio in una di queste case, dove io consegnavo la posta, un giorno la giovane donna che venne a firmare una raccomandata, disse: “Signor Michele, venga, voglio farle vedere una cosa”. Così, la ragazza mi fece strada portandomi in una salettina graziosa con camino e divanetti. Ai muri, alcune foto della casa come era un tempo. Non riuscivo a capire che cosa ci fosse davvero da vedere, anche se ricordavo benissimo quella casa e Maria che quando le consegnavo una cartolina, lei era felice. Guardava distrattamente quel paesaggio lontano che non avrebbe mai visitato di persona e poi si concentrava su ciò che era scritto e diceva: “Che bravo mio nipote Raffaele. Si è ricordato di mandarmi gli auguri per il mio compleanno!”

Come se la ragazza mi avesse letto nel pensiero, disse: “Ecco, guardi tutte le cartoline che mia nonna riceveva grazie a lei che gliele portava e che ascoltava sempre nonna mentre felice, le parlava di me o mio fratello Raffaele”. Seguii il suo sguardo e allora lo vidi. Era un grande pannello appeso accanto al camino che chissà perché, non avevo notato. Era pieno di cartoline. La ragazza continuò: “Ho voluto raggrupparle inserendole in un pannello così da appenderle e tenerle a mo’ di testimonianza ricordando che in un tempo non molto lontano, era buona abitudine mandare un saluto affettuoso con una cartolina. Chi la riceveva di solito era poco interessato a quel luogo misterioso e lontano, ma apprezzava il gesto di chi si era ricordato di lui”. Quando tornai a casa e raccontai il fatto a Valentina, mi ripromisi che avrei ripreso anch’io questa piacevole abitudine. Mia moglie mi guardò sfoderando quel suo sorriso rimasto immutato nel tempo e disse: “Questo significa che tra un po’ riprenderemo a viaggiare?” Io l’abbracciai e dissi: “Non abbiamo mai smesso cara, lo facciamo da ben trentaquattro anni”. Ma lei che ormai si immaginava già mentre visitare posti esotici da sogno, disse: “Farò una lista così non dimenticheremo nessuno dei nostri amici e naturalmente i nostri figli, così che forse, faranno lo stesso con noi”. Insomma… Valentina era lanciatissima ancora prima di programmare il viaggio. Ma questo è il suo carattere: decisa, efficiente, solare. In una sola piccola frase… mia moglie.



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