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Cara Rachele

Carissima Rachele, mentre ti scrivo, osservo una vecchia foto che ci ritrae sorridenti ai bordi della piscina della tua casa al mare. Ricordo tua madre, bellissima e irraggiungibile con quel  modo distaccato di parlare, come se la sua mente fosse da un’altra parte, persa in chissà quali mondi.  Così diversa dalla mia, dai suoi chili di troppo,  dalle sue perenni diete che non le impedivano però di sorridere e scherzare con me. E tu Rachele, a volte eri presente a questi momenti di intimità tra me e lei.  Per me era tutto normale, ma non lo era per te. Lo capii quando mi invitasti a quella  vacanza al mare. Lo capii, ma non ebbi il coraggio di chiederti niente.  Ogni occasione era buona per tuo padre per sminuirti, perfino per deriderti mentre tua madre rimaneva in silenzio. Non lo trovavo giusto e ne soffrivo. Quella settimana in cui rimasi lì con te, percepii qualcosa, ma ancora non conoscevo quale fosse il tuo dramma interiore. Dormivamo nella stessa stanza in un letto matrimoniale, tu ti abbracciavi a me e mi ringraziavi continuamente per esserci, per essere la tua migliore amica e per avere accettato il tuo invito. Ma io, riuscivo a sentirla l’aria pesante che si respirava in quella grande casa, bella da togliere il fiato, ma senza vitalità, senza allegria. Era come se il sole non arrivasse a scaldarla, come se non ci volesse entrare lì dentro. Era una brutta sensazione, un  fastidio che non riuscivo a spiegarmi e che cercavo di scacciare via dalla mia mente.   Non ti ho mai detto niente Rachele, perché nemmeno io avrei saputo cosa dire. E poi, tu eri felice che io fossi lì con te.

Ti ricordi quante nuotate quella settimana?  Quando tuo padre se ne andava, ti rilassavi, anche tua madre sembrava più presente, e allora  cercava, senza riuscirci, di fare conversazione con noi. Tu però, diventavi  dura con lei, le dicevi: “Non sforzarti mamma, lasciaci in pace.” Avrebbe potuto essere quello il momento giusto per chiederti: “Perché sei così acida con tua madre?” Ma non lo feci.

 Dopo quell’estate, io e i miei ci trasferimmo, e i nostri propositi di rivederci e di scriverci, piano piano hanno lasciato il posto ad altro: nuove amicizie, nuovi progetti, università e poi un lavoro. Quelle sporadiche lettere, non erano altro che brevi resoconti che non raccontavano niente di noi, di chi eravamo diventate, fino ad oggi, quando ti ho rivista in un’aula di tribunale. Non potevo credere che fossi tu, non che tu sia cambiata molto, ma i tuoi occhi di quel blu acqua marina, precisi a quelli di tuo padre, erano  spenti, come se avessero visto troppo e non riuscissero a identificare il bello che ancora questo mondo può offrire. D’un tratto eravamo noi due, in piedi, in un corridoio pieno di gente che non ci apparteneva. Sei stata tu a propormi di uscire e di andare a mangiare un boccone al ristorante all’angolo. Avevi guardato l’orologio e avevi detto: “C’è tempo per l’udienza.” Così, dopo aver attraversato la strada, ci siamo sedute una di fronte all’altra. E dopo i soliti convenevoli, mi hai chiesto: “Sei una giornalista vero?” l’avevi intuito guardando la mia foto sul badge dove compariva anche il nome della testata per la quale lavoro. E quando ho annuito, ho capito che eri pronta a parlare. Non mi sono sorpresa quando hai detto: “Chiara, ciò che ti sto per confidare, lo dico alla mia amica di un tempo e non alla giornalista che è diventata. Il processo sarà pubblico, ma preferirei che  tu ne rimanessi fuori.” E io,in virtù di questa nostra amicizia, ho accettato. “Siamo qui in veste di amiche Rachele, puoi fidarti di me.” L’ho pensato davvero. Non avevo più saputo nulla della tua vita. Avevo lasciato che te ne andassi fuori dai miei pensieri per così tanti anni che non sapevo cosa pensare o cosa aspettarmi. Ma tu, con una voce calma e all’apparenza tranquilla, hai iniziato a raccontare, dimentica di anni di lontananza e silenzio.

“Oggi pomeriggio testimonierò contro l’avvocato  Rossi” A quelle parole ho avuto un sussulto, ho rivisto il volto di quell’uomo severo e serio incontrato poche volte per fortuna. L’avvocato Rossi l’hai chiamato, non mio padre, come sarebbe normale. Ti  sei voluta distanziare da lui anche in questo. Mentre attendevamo i nostri ordini, hai detto: “Ricordi il letto matrimoniale dove abbiamo dormito in quella lontana vacanza al mare? Be’, era lì che succedeva. Sono stata sua vittima per anni, sentendomi sempre sporca, incapace di reagire. Detestando la mia condizione, ancor più degli atti orribili di mio padre.”

Devo dirti, cara Rachele, che dopo il tuo racconto  mi era passata la fame. Avrei potuto chiederti più dettagli, ne sarebbe venuta fuori una grande storia. Ti avrei portato come esempio di coraggio perché alla fine lo avevi denunciato quel padre che davanti alla società ricopriva il ruolo di rispettabile avvocato penalista, che offriva al mondo l’immagine di uomo perbene ma che  invece sapeva celare perfettamente la sua vera indole. Pensavo a tutte le cause che aveva vinto grazie alla sua  scaltrezza, e quante invece avrebbe forse dovuto perdere.

Ma non ti ho forzato Rachele, ti ho invece preso la mano e te l’ho stretta forte. Quando siamo uscite, ci siamo abbracciate. Non ho voluto assistere alla tua deposizione. Ho preferito defilarmi e lasciarti libera di dire ciò che poco prima avevi detto a me.

E adesso, dopo molte ore, la tua voce roca dall’emozione, mi ha ridato un po’ di speranza per il futuro. “L’avvocato Rossi è stato condannato” hai detto, per poi riattaccare.

Forse eri troppo provata per parlare, forse avevi solo voglia di startene tranquilla. Non ho idea di quanti anni debba farsi il famoso penalista, ma di certo, nessuno  ridarà indietro a te cara amica mia la tua giovinezza e la tua spensieratezza, persa per i capricci di un padre che non ha saputo fare il padre. Rachele, voglio dirti che hai avuto coraggio. Non importa se ti ci sono voluti anni per trovarlo, ma ci sei riuscita.

Attendo di rivederti. Dobbiamo rifarci di anni di lontananza. Adesso sei libera da pensieri negativi. So che ci vorrà tempo per  guarire, e forse ci sono ferite che non guariranno mai. Ma sento che il nostro incontro di oggi è arrivato al momento giusto. Io non devo condannare nessuno, per fortuna, ma anch’io ho i miei alti e bassi e mi piacerebbe condividerli con te, raccontarci, capirci e perché no, assolverci.

E così, aspettando di rivederti, ho pensato di scriverti una lettera. Sì, proprio oggi, nel mondo dei social, ho scritto a mano. Ma come tu ben sai, ho una pessima calligrafia, rileggo a fatica ciò che ho scritto. Terrò questo foglio come testimonianza del mio stato d’animo, ma ho pensato che è meglio dirti a voce ciò che sento, magari davanti a una bella fetta di crostata al cioccolato. No, non  ho dimenticato i tuoi gusti Rachele.   Mi torna in mente la tua faccia quando mia madre portava in tavola quel dolce che tu consideravi unico. I tuoi occhi si illuminavano. Bastava davvero poco  per farti felice. Ora lo so, in quei momenti  ti concedevi una pausa dai tuoi drammi famigliari, tornando a essere una ragazzina allegra.

La vita, dopotutto, riesce a farci assaporare anche le cose belle. Ci consente una tregua, accantonando per un attimo i nostri pensieri, o peggio, l’inferno che c’è dentro di noi.

Tua Chiara




 

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